«Leopardi e i "Canti"» di Cesare Angelini


A un certo punto dello Zibaldone, nel quale segnava ogni giorno le sue esperienze di lettura e di vita, il Leopardi trascrisse alcuni canti o canzonette che si cantavano in Recanati in quei suoi anni giovanili, 1818 - 1820. Quartine, distici, forse solo princìpi di canti; piccole cose la cui grazia è spesso affidata all'aria che meglio ne esprime il sentimento:

Facciate a la finestra, o Luciola,
decco che passa lo ragazzo tuo,
e porta un canestrello pieno d'ova
mantato con li pampini dell'uva.
Io benedico chi t'ha fatto gli occhi,
chi te li ha fatti tanto innamorati.

Ora, che il Leopardi abbia trascritto questi e altri canti, può anche non avere grande importanza. C'è sempre, prima o poi, un professor Antonio Giannandrea che farà puntualmente la Raccolta dei canti marchigiani fino al 1860. Più importa conoscere l'impressione che essi facevano sull'animo suo, come gli andavano al cuore quando li sentiva cantare, e lo facevano tanto fantasticare, specialmente se uditi nella perduta solitudinne della notte. E questo è pur detto in più di un luogo dello Zibaldone: «Canto notturno dei villani a tarda notte seguente al giorno festivo, e pensieri mestissimi che ne seguivano...». E altrove: «Dolor mio nel sentire a tarda notte il canto dei villani passeggeri. Infinità del passato che mi veniva in mente ripensando ai romani così caduti dopo tanto romore, e ai tanti avvenimenti ora passati ch'io paragonavo dolorosamente con quella profonda quiete e silenzio della notte, a farmi avvedere del quale giovava il risalto di quella voce e di quel canto villanesco». E ancora: «Canti e arie, quanto influiscono mirabilmente e dolcemente sulla mia memoria.... Canto mattutino di donna allo svegliarmi... Canto delle figlie del cocchiere, e in particolare di Teresa...». E' ascoltando e ricordando questi canti che gli verrà fatto di standere quel ricco vivaio di materia poetica che sono gli Appunti e ricordi, dai quali poi, per lenta incubazione, nasceranno gli idilli migliori, fino alle Ricordanze. Qui sorprendiamo i primi e più freschi segni del suo stato d'animo nei momenti della concezione poetica. Dunque, canto popolare come suscitamento di emozione, come condizione di poesia e quasi preistoria di essa. Ricordate quel giovanilissimo frammento intitolato Canto di fanciulla, primo timido affacciarsi del suo canto e lontano precedente d'un idillio maggiore:

Canto di verginella, assiduo canto,
che da chiuso ricetto errando vieni
per la quïete vie, come sí tristo
suoni agli orecchi miei? Perché mi stringi,
sí forte il cuor che a lagrimar m'induci?

Lasciate che l'emozione si condensi, e il ricordo del canto diverrà motivo vero dei suoi canti, e gli darà balzi fantastici poniamo nella Sera del dì di festa:

...Ahi, per la via
odo non lunge il solitario canto
dell'artigian che riede a tarda notte...
e fieramente mi si stringe il core
a pensar come tutto al mondo passa,
e quasi orma non lascia.

E un po' più avanti il motivo ritorna, non meno suggestivo, non meno dolce:

Nella mia prima età, quando s'aspetta
bramosamente il dí festivo, or poscia
ch'egli era spento, io doloroso,
in veglia,
premea le piume, ed alla tarda notte
un canto che s'udía per li sentieri
lontanando morire a poco a poco
già similmente mi stringeva il core.

Che se il canto solitario e notturno lo accora e gli fa fantasticare di età lontane e dell'eterno fluire d'ogni umana opera nel nulla, il canto diurno, che fa risonare le vie del borgo, gli dà speranza e baleni di giovinezza:

Silvia, rimembri ancora...
Sonavan le quiete
stanze, e le vie dintorno,
al tuo perpetuo canto...

E' il canto di Silvia al telaio, che nell'aureo giorno entra per l'aperta finestra nella stanza dove il poeta lavora, e gli stimola il canto immortale. Il poeta l'ascolta ancora:

...io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte...
porgea gli orecchi al suon della tua voce.

O è la voce di Nerina:

O Nerina, ove sei, che più non odo
la tua voce sonar...

Recanati è un paese tutto nel canto:

Sentia le valli risonar del canto
d'agricoltori...

è un frammento che vive sospeso nello Zibaldone, e pare una prova dei versi che torneranno nell'idillio Alla sua donna:

...per le valli ove suona
del faticoso agricoltore il canto.

E se insistessimo a dire che Recanati nei versi del poeta pare un vero cantico delle creature, aggiungeremmo quel Passero solitario che «in sulla vetta della torre antica - cantando va finché non muore il giorno»; o sorprenderemmo il poeta di notte, «mirando il cielo ed ascoltando il canto - della rana rimota alla campagna»; e nella Quiete, ascoltare «augelli far festa e la gallina - tornata in sulla via - che ripete il suo verso». Canti, voci, suoni di Recanati prestano le parole e le sillabe al nascere dei suoi Canti. A nessun altro poeta è mai capitato così: e proprio per la stessa natura dei canti, nati nel suo paese, dal suo paese. Non era cosa in Recanati che non avesse voce per lui: nil sine voce poëtae. Silvia o Nerina, l'ermo colle o il fiume chiaro nella valle, il passero solitario, il suon dell'ora della torre del borgo, la luna sovra i tetti e in mezzo agli orti: la donzelletta, l'erbaiolo, lo zappatore, la lucciola alla siepe o la rana rimota alle campagne, e la gallina che ripete il suo verso. Il suo paese è il suo paesaggio poetico:

...Qui non è cosa
ch'io vegga o senta, onde un'immagin dentro,

non torni, e un dolce rimembrar non sorga.
Ma ogni volta che leggiamo i Canti, ci accorgiamo che, a qualunque paese si appartenga, ogni cosa ha una voce anche per noi: nil sine voce nobis; a dire Recanati, risponde dentro un'eco profonda, qualcosa che è cresciuta con noi, con la nostra anima. Trasferite nei Canti, quelle cose sono mirabimente comunicate a tutti, e la sua poesia è divenuta una grande comunione. Partiti da un paese remoto, i Canti sono diventati universali. Silvia è nell'anagrafe del municipio e nel registro parrocchiale, col suo nome e cognome e anno di nascita. La biografia aggiunge che era figlia del cocchiere, e il contino la teneva d'occhio. Silvia è una «realtà» di Recanati, che veramente gli occhi del poeta videro come «cara compagna dell'età sua nuova». Ma ciascuno di noi sente questa «realtà», questo «particolare» di Recanati, e diventa anche sua. Lo stesso è della torre del borgo e il suon dell'ora recata dal vento, e certi chiari di luna o la scena del sabato del villaggio o il rinascere della quiete dopo la tempesta; particolari che allora hanno parlato al cuore del poeta, e attraverso i Canti continuano a parlare anche a noi. Si sono spogliati del loro contingente e hanno acquistato un valore universale, eterno. Appartengono a noi per quella felice contemporaneità che è privilegio e dono della grande poesia, ha la virtù di dare vita eterna alle cose fuggitive. In partenza, e per nostra comodità, questi Canti abbiamo anche potuto chiamarli Canti di Recanati, tanto li sentivamo e sentiamo voce, voci di questo paese. Ma il poeta non li ha intitolati così (come, poniamo, il Pascoli ha intitolato i suoi Canti di Castelvecchio) ma semplicemente Canti. Non perché non fosse consapevole dell'ambiente che ne aveva creato i motivi ispiratori: ma piuttosto perché era consapevole del valore dei suoi Canti; e, in un modo umile come conveniva alla sua grandezza, nella semplicità nuda del titolo, ne affermò il valore universale ed eterno: di Canti che valicano i limiti del tempo e d'un paese.

 

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