«Il cinema dell'indeterminazione» di Guido Aristarco
Nato come fenomeno da fiera, divertimento per soldati in libera uscita e balie, sino a poco tempo fa - e la locuzione non è ancora scomparsa - per alludere a disordine, chiasso, a qualcosa di volgare e non serio si diceva: «Che cinematografo!» Una canzonetta principio secolo offre un'immagine piuttosto precisa di questo complesso ereditario che pesa sul cinema: «I cinematografari / diventan milionari / si fan gran denari / ormai con le pellicole». Al neologismo alquanto spregiativo «cinematografaro» se ne è sostituito un altro, «cineasta»: cultore, artista del film. Ma perdura «cinelandia», termine con il quale si definisce ancor oggi quell'insieme di case di produzione, teatri di posa e opere considerato come un mondo favoloso, bizzarro e stravagante, finto e cervellotico. Le magie, i trucchi di cui parlava, in fondo ironicamente, D'Annunzio. Eppure le origini del cinema furono anche diverse, più nobili. Un grande teorico dell'avanguardia, Walter Benjamin, sostenne che l'avvento del nuovo mezzo espressivo capovolgeva la nozione d'arte tradizionale; che, messo in crisi tutto il sistema precedente, offriva un ripensamento critico di ciò che le arti vengono a significare oggi; che il cinema ha relazioni non marginali con scienza, psicologia e psicoanalisi. Non a caso Arnold Hauser conclude la sua storia sociale dell'arte e della letteratura nel segno del film, contemporaneo al concetto bergsoniano del tempo. Pochi si resero conto di un tale capovolgimento; la consonanza fra i mezzi tecnici del film e le caratteristiche del nuovo concetto del tempo è così perfetta che, per dirla appunto con Hauser, si è portati a pensare i modi temporali dell'arte moderna come nati dallo spirito della forma cinematografica e a vedere nel film la forma d'arte tipica di un preciso momento storico. Joyce confessa che un film sull'astronomia gli diede l'idea del ritmo del monologo di Molly Bloom nell'Ulisse. Resosi conto della nuova tecnica, Majakovskij scrisse alcuni soggetti che «seguivano di pari passo la nostra opera di rinnovamento nella letteratura». Guardando a queste origini non subalterne e sottoproletarie, altri scrittori e poeti quali Babel'e Dylan Thomas, Eliot e Malraux e, più recentemente, Pasolini, Beckett, Marguerite Duras, Robbe-Grillet, si sono avvicinati al cinema, ai di là di semplici interessi alimentari e gastronomici. I premi Feltrinelli estesi ai film, i capitoli a esso dedicati da filosofi, i riferimenti al cinema nei testi di critica letteraria, le prime cattedre universitarie di storia e critica del cinema, sono sintomi rivelatori di una situazione che va sempre più mutando, anche se pregiudizi e incomprensioni permangono, a seguito anzitutto di una stragrande produzione mercantile. La principale forma d'arte dei nostri giorni, il cinema - afferma nel 1949 F.O. Matthiessen - è il segno più radicale delle nostre immense potenzialità e della nostra continua corruzione: non possiamo permetterci, neppure nelle Università, di voltare le spalle a fenomeni quali il cinema e al mondo da cui essi provengono. Fra le responsabilità del critico letterario o d'arte figurativa, conclude, c'è anche la conoscenza, l'intelligenza del film. Ma di un altro mutamento siamo testimoni, che anche il cinema rispecchia: il passaggio dalle filosofie della sicurezza a quelle del dubbio. Nicola Abbagnano sottolinea che la scienza non è oggi considerata strumento per offrire tranquillità al nostro destino in un mondo instabile, precario, teso a mettere continuamente in pericolo la sopravvivenza stessa dell'uomo, l'esito delle sue imprese; che la logica, di cui la scienza si avvale, non è più espressione delle leggi eterne del pensiero, ma un calcolo o un insieme di calcoli convenzionali, le cui regole possono essere indefinitamente variate. All'idea di «legge», che di ogni effetto cerca «la causa unica e determinata, pienamente misurabile», Einstein ha sostituito l'«onda di probabilità»: non sono più le proprietà, egli afferma, ma le possibilità, a formare oggetto di descrizione. Nella letteratura moderna come nel cinema. Parafrasando Giacomo Debenedetti possiamo dire che, venute meno le fiducie in una durevole intesa, nel raggiungimento di una convivenza pacifica tra l'uomo e la storia, estremamente rigogliose all'indomani dell'ultima guerra, riapertesi le fratture fra difficoltà personali e problemi pubblici, anche i film - certi film - non chiedono di confermare quelle fiducie, e riflettono la crisi delle ideologie e della persona: ansia, insicurezza dell'esistenza, rischio, ambiguità, malattia dei sentimenti, angoscia, nevrosi, alienazione. L'uomo non è più un attore e arbitro, ma spettatore paralizzato della storia, vittima di forze che solo in minima parte può controllare. In questa situazione e contesto va anche inteso il fatto che Merleau-Ponty riconosca al critico cinematografico il diritto di evocare la filosofia, una particolare filosofia a proposito di certi film appartenenti a un genere che si fa sempre più nutrito e maggiormente attraversato da significati reconditi, ambigui, nascosti, contraddittori. E' un fenomeno che riscontriamo persino, analogamente a quanto accade nella letteratura, in pellicole poliziesche o di spionaggio. E' una parte del panorama culturale cinematografico che è mutata. Pure al film oggi si presenta l'alternativa emersa nel romanzo contemporaneo, del suo «dover essere». Il regista si imbatte cioè in un'analoga scelta - esemplificando e adoperando termini di comodo - fra «tradizione, e «avanguardia». Di lui si può ripetere infatti quanto si è detto per lo scrittore: questo torna a trovarsi, dopo la stagione del dopoguerra e almeno in Occidente, di fronte al dilemma di aderire a una composizione per l'appunto tradizionale, che lo rassicura ma non lo appaga o a un nuovo tipo di narrazione-descrizione, che l'appaga ma non lo rassicura, che stenta a riconoscersi nel romanzo, si presenta più o meno come «antiromanzo»: esso tende a farci vedere il mondo, non a spiegarlo, esclude il personaggio, la trama in senso dialettico, la psicologia, ecc. Il film, aspetto particolare ed elemento integrante della cultura in generale, da questa, dal suo odierno panorama e configurazione, viene appunto determinato. Antonioni e Bergman, Godard e Resnais, Robbe-Grillet e Marguerite Duras - pur tanto diversi gli uni dagli altri - si trovano anch'essi dinanzi a un aut aut, a un nuovo «dover essere». Giacomo Debenedetti, in un esemplare intervento che pone l'interrogativo «Un punto di intesa nel romanzo moderno?», sottolinea il peso e i'importanza che in questo vengono ad assumere i pirandelliani Sei Personaggi in cerca d'autore e, ancor prima, i Quaderni di Serafino Gubbio operatore, rispettivamente commedia e romanzo «da fare». I protagonisti dei Quaderni, osserva, oppongono una sfida a un trattamento veristico che li faccia coincidere con una sola delle loro molte e trasmutabili possibilità, e in base a quella declini logicamente la propria storia su una linea a senso unico e indeformabile. La dinamica di questo, «romanzo da fare» - aggiunge Debenedetti - è sollecitata dalla antitesi tra i personaggi stessi, continuamente insidiati dal senso di sconfitta di Serafino Gubbio, operatore ridotto a essere «una mano che gira una manovella» quella della macchina da presa: condannato cioè alla passività, all'impersonalità della registrazione veristica. «Il verismo subisce l'ultimo scacco, anzi il definitivo contrappeso della sua ormai constatata inservibilità: perde l'uso della parola». Debenedetti vede nel «romanzo da fare», nell'accezione pirandelliana, la più regolare via di scampo per gli scrittori appunto divisi tra «vecchi schemi» e «nuove esigenze»: un nuovo «dover essere» della narrativa. Una tale ipotesi si sta affacciando anche nel cinema, nei film-saggio di Godard ad esempio, o del Resnais di Trans-Europ Express. La cinese è un «film in corso di lavorazione», e Godard lo chiude con la didascalia «Fine di un inizio». La femme mariée - afferma - «non l'ho nemmeno chiamato film, ma frammenti di film, perché, all'ultima pagina, non è terminato, non è finito e non pretende di esserlo». In più, aggiunge il regista, sono frammenti che si riferiscono a una sola giornata della protagonista, che passa dal marito all'amante e dall'amante al marito, dall'intimità familiare a quella degli appuntamenti con l'altro, ripetendo gesti, atti, comportamenti uguali e uniformi, quasi meccanici. Capita alla sua Charlotte quanto accade a Serafino Gubbio operatore: anch'essa è condannata alla passività, diventa, sia pure in questo caso del tutto metaforicamente, muta. L'«oltre», il «di là da noi stessi» è al centro di diverse opere di Bergman, e in particolare del Bergman di Persona. L'ora del lupo inizia con fuori campo, mentre scorrono i titoli di testa, le voci, gli ordini del regista; e, al «motore, si gira!», vediamo le prime immagini. Ai fenomeni esterni, quali ci appaiono nella superficie quotidiana, si sostituisce l' essenza degli uomini e delle cose che gli abiti nascondono: il dualismo tra forma e vita. «Mi sto sforzando di rendere intellegibile, attraverso il mezzo visivo del cinema - scriveva Pirandello - come i sei personaggi e i loro destini furono concepiti nella mente dell'autore, e, imbevutisi di vita, si resero indipendenti da lui». I film che intendono essere puri testimoni, si limitano in genere a registrare i fatti della vita alla supeficie e in senso univoco. Thomas, il fotografo protagonista di Blow-up di Antonioni, crede di poter vedere con la sua «macchinetta», ed è uno che non vede: l'apparecchio fotografico non riesce a carpire e documentare la realtà, il cui volto è «uno, nessuno e centomila». Al pari di Serafino Gubbio, Thomas, per «aver spinto fino all'eroismo la passività di testimone», è colpito da un trauma che lo rende muto, cioè cieco. Con Antonioni anche il verismo cinematografico subisce l'ultimo scacco, anzi «il definitivo contrappasso della sua ormai constatata inservibilità». La stessa fotografia, elemento primario del cinema, è messa in crisi.
