Eldorado e l'oro degli Incas di Felice Bellotti.

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Monografie

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«Eldorado e l'oro degli Incas» di Felice Bellotti

L'oro fu il primo metallo scoperto dall'uomo sudamericano, nell'alba della sua trasformazione da homo erectus in homo sapiens, quando da poco aveva intuito e capito i segreti naturali della riproduzione animale e vegetale ed aveva «inventato» l'agricoltura, trasformandosi da nomade in sedentario o, almeno, in semisedentario. Sino allora l'uomo, eternamente proteso a procurarsi il cibo necessario alla sopravvivenza, non aveva mai avuto il tempo o il modo di guardarsi in giro e, anche se le aveva viste, le scintillanti particelle d'oro nelle sabbie alluvionali trascinate dai grandi fiumi non avevano mai attirato la sua attenzione. Con il cibo almeno parzialmente assicurato dal raccolto, l'uomo cominciò ad avere il tempo per guardarsi in giro e per scrutare in se stesso. Ed è di questo periodo la scoperta dell'oro, la curiosità di raccoglierlo e di schiacciarlo fra due pietre, l'idea di conservare la lamina così ottenuta per ammirarne l'immutabile splendore. Piccola fantasia che segna pur sempre la nascita nella mente umana del senso del bello, cioè dell'arte, che è la somma di una idea geniale con la capacità tecnica di comunicarla agli altri. Più grande è il numero di costoro, tanto maggiore è il valore artistico dell'opera. La prima zona dell'America del Sud occupata dall'uomo, che vi penetrò attraverso l'istmo di Panama, fu il territorio corrispondente alla moderna Colombia. Qui i grandi fiumi che scendono dai massicci andini, specie il Magdalena e il Cauca, trascinano ancora oggi apprezzabili quantità d'oro. Alcuni millenni or sono, il numero e il peso per unità delle pepite raccolte doveva essere assai notevole, se prese inizio e si sviluppò la magica leggenda dell'Eldorado (El Dorado, il dorato), che rispondeva a una verità del «regno» di Guatavita, dove ogni sovrano, prima di assumere il potere in nome degli dei e dopo un complicato periodo di purificazione, si immergeva nudo ma ricoperto di polvere e di placche d'oro nel lago omonimo, nel quale era rituale gettare oro e smeraldi per ottenere il favore divino. Su questo territorio si svilupparono, indipedentemente una dall'altra, sette «culture» dell'oro di stile assai differente. Da nord a sud: Tairona, tra l'estuario del Magdalena e la sierra de Parija, Sinu, tra il Mare dei Caraibi e il fiume San Jorge, Darien, tra le rive del Pacifico e il fiume Cauca, Muisca o Chibcha, a oriente del Magdalena, sull'altopiano che costituisce la moderna Cundinamarca dove sorge Bogotà, Calima, tra il Pacifico e la Cordigliera Occidentale, Quimbaya, a cavallo della Cordigliera Centrale, e Tolima, tra l'alto corso del Magdalena e la Cordigliera Orientale. L'oro non reagisce all'isotopo 14 del carbonio, per mezzo del quale, con il sistema del professor Libby, si riesce a stabilire con approssimazione di decenni la data di rifiuti organici, e di un secolo quella di pietre, terrecotte e, in genere, reperti archeologici. L'oro, forse perché immutabile, non ha età. Così non è possibile stabilire in quale zona siano stati prodotti i primi ornamenti d'oro e neppure se abbiano preceduto o seguito l'artigianato della terracotta, che comunque, in Colombia, non ha mai raggiunto valore artistico, rimanendo solo utilitario. Ma l'abbondanza dei vasi da appendere in oro puro e, in seguito, di tumbaga (una lega tra oro, argento e rame) permettono di stabilire la probabile contemporaneità dell'oreficeria e della terracotta. I vasi d'oro, dapprima lisci e poi sempre più complicati sino ad assumere aspetti antropomorfi e fitomorfi, servivano per portare con sé cibo, bevande e qualsiasi altro elemento d'uso immediato e continuo; mentre altri, sempre di metallo puro ma senza il cordoncino per essere appesi, sono considerati come urne funerarie.

La prova è stata fornita dall'analisi di ceneri trovate in uno di questi ultimi, in base alla quale risultarono composte al 78,25 per cento da calcio, residuo di ossa calcinate. Il prezioso metallo giallo fornì comunque ai primi abitatori della Colombia la materia prima per esprimere una forma d'arte. In un primo tempo l'oro venne solo laminato e gli oggetti più antichi, per lo più pettorali che si portavano appesi al collo, erano ornamenti personali, la cui bellezza consisteva solo nel luccichio dell'oro. Poi vennero decorati a sbalzo con volti umani, con rappresentazioni veristiche di animali, di piante e grani, di oggetti d'uso normale come propulsori, cucchiai cerimoniali. Attraverso figurine umane, fuse in stampi di creta, i Chibchas hanno lasciato una documentazione completa dei loro costumi: sovrani con corone o mitrie sul capo, mantelli di piume, scettri, soldati con scudo, archi e frecce, donne con un bambino in braccio con una culla, o recanti un nido di api, simbolo della fecondità. Probabilmente l'oggetto più mirabile prodotto con il sistema della fusione del metallo in una forma di creta è la splendida maschera d'oro conservata nel British Museum, di una bellezza e di una semplicità plastica affascinanti. Fra gli oggetti d'oro che si sono salvati dalla fusione solo perché la loro bellezza riuscì a commuovere l'ingordigia e la rozzezza dei Conquistadores (e soprattutto a evitare il sacro furore dei preti cristiani che li accompagnavano e che in ogni oggetto sacro dei pagani vedevano il culto del demonio e una offesa a Dio), è difficile distinguere oggi quelli riservati al culto e quelli puramente ornamentali, maschili o femminili. Gli abilissimi orafi non hanno lasciato spiegazioni. Ma l'eccezionale bellezza della stilizzazione di volti umani e di animali, gli idoletti di stile Darien e Tolima, il vasellame Quimbaya dimostrano quale sia stata, con il trascorrere dei millenni, l'evoluzione artistica dei primi abitatori della Colombia. I loro orafi inventarono anche il processo della cera perduta (stili Calima e Sinu), con il quale fusero pendenti nasali ed orecchiere smontabili in due o più pezzi; e seppero fondere delle elastiche pinze depilatorie che potrebbero servire ancora oggi. In realtà, tutto ciò che noi sappiamo delle popolazioni colombiane del tempo anteriore alla Conquista lo dobbiamo agli oggetti preziosi conservati al Museo dell'Oro di Bogotà (8000 pezzi per un peso complessivo di oltre 150 chilogrammi), fra i quali vi sono mirabili esemplari di tutti gli stili, e al «tesoro di Quimbaya», conservato nel Museo de América di Madrid. Per molti secoli, il lavoro di oreficeria costituì un monopolio delle popolazioni colombiane, anzi, degli orafi del «regno» di Guatavita, ii cui sovrano ne era tanto geloso da impedire la loro emigrazione presso altre tribù, a meno che non gli venissero consegnati almeno due uomini giovani e validi in cambio. Ma proprio questa idea costituì la sua rovina, perché lo zipa (capo tribù) di Bacatá inviò a Guatavita, in cambio degli orafi, i suoi migliori guerrieri, i quali, al momento opportuno, assassinarono il sovrano di Guatavita e aprirono le porte del piccolo «regno» alle truppe del loro zipa, che unificò le tribù della Condinamarca e le mantenne sotto il suo dominio sino all'arrivo dei Conquistadores. I quali, frugando sul fondo dei laghi sacri di Guatavita, Ubaque, Siecha e Guasca, raccolsero favolose ricchezze in oro e pietre preziose. Nel solo laghetto di Guasca, Perez de Quesada e Antonio de Sepulveda rinvennero quindicimila pesos catellanos d'oro fino. Nella località dove oggi sorge la città di Tunja, a una settantina di chilometri da Bogotà, i Conquistadores predarono 170 mila pesos castellanos di metallo puro, ottenuto fondendo un incalcolabile numero di tunjos, figurette antropomorfe che narravano la storia dei popoli Chibchas da quando, tre o quattro millenni prima, un indio aveva avuto l'idea di schiacciare fra due pietre una pepita d'oro.

Dalla Colombia l'arte orafa si sparse verso il sud lungo il crinale delle Ande e le coste del Pacifico, dapprima nel solo Ecuador dove gli Spagnoli trovarono tante pietre preziose e tanto oro da chiamare «Esmeraldas» una provincia sulle rive del Pacifico, poi tra le varie tribù che popolavano le valli andine e le coste settentrionali del Perù. Qui l'oro alluvionale era più scarso che in Colombia, ma la metallurgia in genere era alquanto più sviluppata, specie a sud del lago Titicaca, dove la civiltà di Tiwanacu si era sviluppata, influendo su tutte le altre. I ricchissimi giacimenti d'argento, di rame e di stagno erano già sfruttati da secoli e il rame era già stato indurito in una lega con lo stagno che, se non era proprio bronzo, in quanto non ne rispetta le esatte percentuali, era qualcosa di molto simile. Esperienza e tecnica nella metallurgia servirono certamente alle varie popolazioni dell'antico Perù, ma la palma della perfezione deve essere senz'altro attribuita ai Chimú, il popolo che disputa a quello di Moche il primato anche nel vasellame di terracotta plasmato per raffigurare tutti gli esseri viventi della terra, del mare e del cielo e dipinto per presentare le scene della vita di tutti i giorni. La conoscenza dell'oro fece abbandonare ai Chimú il culto che nutrivano per l'arte vasaria, che venne praticamente limitata alla fabbricazione in serie di oggetti utilitari. L'oro è già assurto a simbolo della divinità stessa, il Dio Sole, che sta per prendere il sopravvento su tutti gli altri e incarnarsi nell'Inca, figlio del sole. Questi, nel suo nascente impero, annuncia ai popoli, come il Faraone Sethos nel XV secolo a.C., che l'oro «materia divina», non è per i comuni mortali, e commina la pena di morte per chi non lo consegni. Il Gran Chimú non sa nulla di tutto questo, nessun augure ha ancora predetto il destino che attende i suoi discendenti. Il suo regno è in pieno splendore, una catena di geniali fortificazioni lo protegge. A Chan Chan le pareti della sua reggia di argilla sono tappezzate d'oro purissimo lavorato a sbalzo da artisti che conoscono alla perfezione tutti i segreti del prezioso metallo; egli stesso, i suoi cortigiani e i suoi generali indossano paramenti e corazze d'oro; stoviglie; anfore e calici sono del medesimo metallo, lavorato a sbalzo e intarsiato di turchesi. L'arte dell'oreficeria ha raggiunto vette insuperabili anche nei gioielli per le donne, negli oggetti del culto, nelle raffigurazioni degli dei. E i dignitari scendono nelle tombe con maschere e pettorali d'oro, braccialetti e collane dove si alternano biglie d'oro e, pietre preziose. E' il canto del cigno di un ciclo dell'evoluzione umana. Da dietro la catena nevosa delle Ande dalla quale spunta la luna, dea protettrice di Chan Chan e del Gran Chimú, è sorta la stella degli Inca, che hanno elevato a Cuzco un tempio dedicato al Dio Sole, raffigurato come immenso disco d'oro massiccio celato nel santo dei santi. Quello che rimane della perfezione artistica dell'oreficeria del Perù è disperso in parecchi musei, ma la maggior parte degli oggetti superstiti, non ancora catalogati, sono raccolti nelle vicinanze di Lima, nel museo privato di don Mojica Gallo, unico al mondo nel suo splendore. Dell'oreficeria incaica si sa assai poco, forse solo che le immagini d'oro venivano ricoperte di colori. La quasi totalità degli oggetti aurei di proprietà degli Inca venne ammassata in una immensa sala di Cajamarca «sino all'altezza di una mano levata», quale riscatto per lo sventurato Inca Atahualpa, e fusa in lingotti per essere inviata a S. M. Cristianissima il Re di Spagna. Correva l'anno del Signore 1532.

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