«Domenikos Theotokopulos, il Greco» di Gonzalo Alvarez Garcia


Domenikos Theotokopulos, detto il Greco, nacque a Creta, allora dominio della Repubblica di Venezia, nel 1541. La famiglia del Greco doveva essere abbastanza ricca da assicurargli l'educazione artistica e la profonda cultura umanistica che egli possedeva. Probabilmente iniziò la sua formazione nella scuola di qualche monastero. Creta era ricca di monasteri famosi ed ogni monastero disponeva di un'officina d'arte, dalla quale uscivano quelle icone bizantine che andavano a rifornire i mercati d'Oriente e d'Occidente. C'è nella pittura del Greco un contrasto affascinante tra il contenuto dei suoi quadri, rigorosamente latino, e la sua tecnica, per molti versi orientale e quasi antilatina. Nel 1566 il Greco si trasferiva a Venezia, dove esisteva una nutrita colonia di pittori ellenici. Dall'unione dell'arte bizantina con la pittura veneziana era nata in seno alla colonia greca una scuola artistica che si chiamava «Scuola Bizantina migliorata». Gli anni in cui visse a Venezia, quattro o cinque, furono per il Greco anni di studio intenso. Osservò attentamente i pittori più rinomati e copiò le loro opere. Si conserva a Firenze una sua copia della «Notte» del Correggio, grazie alla quale si comprende perché nelle luci notturne dei Presepi dipinti dal Greco in Spagna riecheggino i chiaroscuri del Correggio. Il pittore a cui si legò più strettamente a Venezia fu il Tiziano. Il Tiziano si trovava allora nella fase più alta del suo processo pittorico e la sua fama toccava le stelle. Il Greco frequentò il suo studio tanto assiduamente da passare tra i contemporanei come «un discepolo del Tiziano». Imparò molto anche dal Tintoretto, al quale lo legava una profonda affinità: la stessa concezione della pittura e lo stesso mondo spirituale dal quale la pittura scaturisce. Alla fine del 1570 si trasferiva a Roma, ancora povero di fortuna e di fama. Michelangelo se ne era già andato dalla Città Eterna. Al posto del grande fiorentino ora si trovava una schiera insipida di imitatori formali. Il Greco non li poteva sopportare. Per di più, in quella Roma della seconda metà del Cinquecento tirava aria tridentina. Dal tempo dei grandi affreschi della Cappella Sistina era passata molta acqua, e turbinosa, sotto i ponti romani e sotto i ponti di tutta la cristianità. La Riforma protestante e la Controriforma cattolica avevano aperto crisi profonde. L'egemonia economica dell'Italia era scomparsa. Gli eserciti della cristianissima Francia e quelli della cattolicissima Spagna si scornavano a vicenda in terra italiana e mettevano a soqquadro le sue città e le sue campagne. Nel corso di quelle liti tra montoni avvenne il «sacco di Roma» che gettò la Città Eterna nello sgomento più profondo. Il classicismo vissuto con tanto fervore durante un breve periodo del Cinquecento appariva adesso come una pura finzione. Le possenti muscolature dipinte da Michelangelo ora provocavano sentimenti di colpa e il volenteroso Daniele da Volterra, detto per questa sua pia opera «il Braghettone», cercava di coprire alla meglio il nobile sesso ora considerato «vergogna». Il Greco ebbe sempre l'ambizione di realizzare grandi affreschi, di trovare spazi illimitatl dove poter liberare la sua pittura, sempre imbrigliata da cornici e riquadri d'altare. In quell'ambiente romano di pettegolezzo equivoco sembra che egli si sia lasciato andare ad apprezzamenti rischiosi. "Distruggete tutta l'opera di Michelangelo" si dice che abbia detto "ed io la rifarò con onestà e decenza e con pregio pittorico non inferiore a quello del Fiorentino". Queste parole azzardate provocarono l'indignazione di pittori romani, che ripagavano con ostilità la poca stima di loro che dimostrava il Greco, e si dice anche che per questa indignazione egli dovette fuggire in Spagna. Sono congetture infondate. Il suo passaggio a Roma costituì una tappa decisiva della sua formazione artistica. Dai veneziani aveva imparato l'irrealtà del colore e della composizione; a Roma, l'opera di Michelangelo gli insegnò l'irrealtà della forma. Non aveva più niente da imparare in Italia. Ormai gli mancava soltanto di accostarsi al disperato «donquijotismo» della Spagna per produrre i suoi capolavori. Partì, quindi, per la Corte di Castiglia. Per tutta l'Europa si era sparsa la voce che Filippo II stava costruendo l'Escorial. Gli agenti del re spagnolo cercavano da per tutto artisti e opere d'arte per decorare quell'immenso cubo di granito. Sembrava che la Spagna intera fosse un unico cantiere. Questo è il vero motivo della sua partenza da Roma. Riferisce un autore contemporaneo che, quando il Greco arrivò nella città di Toledo, entrò in essa non più come discepolo del Tiziano, bensì «con tale sicurezza e autorità da far pensare a tutti quanti lo avvicinavano che non c'era al mondo pittura superiore alla sua». Filippo II non lo capì e, grazie alla regale incomprensione, il Greco rimase a Toledo con l'orgoglio solitario di chi conosce il proprio valore. Toledo diventerà la sua residenza definitiva e la sua patria. Ricca, colta e industriosa, essa era nella seconda metà del Cinquecento la città più importante della Spagna. Certo, non era paragonabile a Venezia o a Roma. Era sempre una piccola cittadina assediata dal fiume Tago. Dai 60 ai 100 mila abitanti si muovevano nel suo recinto congestionato come un pugno chiuso. Era stata la capitale del regno visigotico prima dell'invasione araba, e del grande impero spagnolo al tempo di Carlo V. Nel 1561 Filippo II decretava il trasferimento della Corte a Madrid. Allora cominciò il lento declino di Toledo. Le rimaneva soltanto il fasto ecclesiastico. L'Arcivescovado di Toledo possedeva tante rendite da essere considerato la diocesi più ricca di tutto il mondo cattolico, dopo quella di Roma. Le sue strette viuzze brulicavano di hidalgos impoveriti, di canonici potenti e vanitosi, di «picaros», di frati mendicanti e di mistici girovaghi. Severa e variopinta, ricca e sapiente, hidalga e industriosa, questa città accolse il Greco e la sua pittura come poche volte una città ha saputo accogliere un artista geniale. Qui il Greco trovò la donna della sua vita, Donna Jerónima de las Cuevas, giovane, bella, colta e sensibile, che gli diede un figlio e ispirò le sue Madonne. Non si sposerono mai. Ebbero il coraggio di restare amanti per tutta la durata della loro vita. E fu grande coraggio in una città come Toledo, cuore religioso della Spagna bigotta, soggiogata dall'occhio inflessibile dell'Inquisitore. Il Greco amò appassionatamente Jerónima e ritrasse la sua bellezza squisita con un gusto sensuale che a volte rasenta l'adorazione. Uno scrittore del suo tempo scrive che il pittore guadagnò molti ducati, ma li spendeva con troppa ostentazione nella sua casa, fino al punto di avere assoldato una compagnia di musicisti per poter godere le delizie della musica mentre pranzava». Fu un uomo generoso e spendaccione, più idealista che prammatico, più platonico che aristotelico anche per quanto riguarda le incombenze della vita quotidiana. Spendeva o regalava con noncuranza i ducati guadagnati con la pittura o li chiedeva in prestito quando non ne aveva più. La ricchezza in quanto tale non aveva alcun senso per lui. Ma essendo, come era, cosciente dei diritti del suo genio, pagava i musicisti perché rallegrassero i suoi pranzi. La consapevolezza del proprio valore lo portò anche a difendersi fieramente dalla ricchezza troppo facile. Manuel de Melo, scrittore del Seicento, riferisce che il Greco fu chiamato a Siviglia quando Sivigiia ere diventata un emporio attivissimo dove si comprava e si vendeva con identica facilità tutto ciò che richiedevano sia l'anima che il corpo dei consumatori, affinché dipingesse in serie, secondo il gusto popolare, madonne e santi da esportare nei mercati del nuovo mondo. Ma il Greco si rifiutò con queste parole: «Preferisco vivere nella miseria piuttosto che nella volgarità». Misero e raffinato, trascorse gli ultimi anni della sua vita. Morì il 7 aprile 1614. Donne Jerónima era morta, ancora giovane, intorno al 1595 ed egli era rimasto solo con suo figlio Manuel. Ammalato, quasi paralitico e incapace di dipingere negli ultimi anni, conobbe la povertà. Poi venne dimenticato. Solo in tempi piuttosto recenti gli è stata riconosciuta universalmente la qualifica di grande genio dell'Arte. La sua pittura è una fusione di naturalismo e spiritualismo, di espressionismo barocco e intellettualismo surrealista, espressione artistica di un mondo in crisi profonda. Alla Spagna monolitica e onnipotente dei Re Cattolici e di Carlo V era succeduta la Spagna di Filippo Il, sempre in fuga da se stessa, sempre in lotta spasmodica per mantenere una supremazia impossibile. La difesa ad oltranza della religione cattolica aveva precipitato la nazione nel fanatismo più squallido, nella rovina economica e nella disfatta militare. Filippo II era stato seguito dagli altri due Filippi, il terzo ed il quarto, l'uno più inetto dell'altro. Un'aria melmosa di tragedie incombeva sull'impero spagnolo. Si sentiva che era un colosso i cui piedi d'argilla cominciavano a sgretolarsi. «Le continue guerre che consumano infinita gente giovane, restituendoci morti e mutilati, l'espuisione gratuita dei moriscos, i quali con la loro operosità sostenevano l'economia della nazione, l'altissimo numero di uomini e donne che entrano in religione spinti non da vera religiosità, bensì dalla pigrizia e dalla paura della miseria...» si leggeva in un memoriale inviato dalla popolazione di Toledo al Re pochi anni dopo la morte del pittore. Se ne accorgeva il popolo, non poteva non accorgersene il Greco, il cui soggiorno nell'Italia dell'Umanesimo aveva lasciato nel suo spirito un'acuta sensibilità. Quando egli dipingeva la città in bilico tra le nuvole, forse intendeva rappresentare un impero sospeso in aria, privo di fondamenta. Quando dipingeva il suo Laocoonte, sullo sfondo di una Toledo che era ancora simbolo dello Stato, forse intendeva dipingere le angustie imponenti di una società senza speranza, soffocata dalle spirali di un destino che la stritolava come le spirali del serpente E lo sguardo obliquo e sinistro del cardinale Nino de Guevara, grande Inquisitore, è forse la condanna, da parte del pittore, di una concezione della vita tremendamente anticristiana nella sua parossistica difesa della cristianità.

 

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