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" Critica del futurismo " di Leonardo Borgese

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" Critica del futurismo " di Leonardo Borgese

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«Critica del futurismo» di Leonardo Borgese


Fondatore del futurismo fu un ricco letterato di semicultura francese, parnassiano e simbolista, Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944), originario vogherese nato ad Alessandria d'Egitto, che lanciò un Manifesto il 20 febbraio 1909, a Parigi.

(Lo stesso Marinetti ebbe a fondare il fascismo, una decina d'anni dopo, e Mussolini si inserì).

Il Manifesto ha carattere raccogliticcio e autodidattico, anzi che eclettico.

Ci risentite san Giovanni l'evangelista, Baudelaire, Whitman, Nietzsche, Nordau, Huysmans, Maeterlinck, D'Annunzio, il Kaiser, Sorel le cui Considerazioni sulla violenza furono pubblicate in Italia con introduzione, 1907-1909, di Benedetto Croce e perfino Mario Morasso, poligrafo paradossale, reazionario, tecnolatra e velocimane, che gl'intelligenti e i colti di quel tempo pigliavano sul ridere.

(Fra l'altro, Morasso stampava che l'abolizione della schiavitù costituì un enorme danno per il progresso).

E dentro il Manifesto trovate dunque del simbolismo, e ancora del vittorughismo e del decadentismo, dell'anarchismo, del vecchio progressismo e avvenirismo, e perfino del Ballo Excelsior, del Barnum, del Buffalo Bill, dell'Emilio Salgari..

Né pare più serio il Manifesto dei Pittori futuristi (11 febbraio 1910) sottoscritto da Umberto Boccioni, Carlo Dalmazzo Carrà, Luigi Russolo, Giacomo Balla, Cino Severini.

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(Romolo Romani e Aroldo Bonzagni rifiutarono di firmare i manifesti, si dice.

Bonzagni essendo contrario al divisionismo e vedendo, viceversa, in programma un neodivisionismo; mentre a Romani, autentico malato della psiche, forse non doveva piacere fare il matto per programma, e doveva capire che la sua propria inquietudine spirituale sarebbe diventata nel futurismo, un'imitazione del cinematografo, col «dinamismo», più o meno plastico, ma senza movimento alcuno, o insomma con un movimento solo a parole).

Tal primo proclama dei pittori appare anzi confuso; e infatti ci sentite fin troppo il raccogliticcio e l'imparaticcio, con vaghe allusioni alle nuove filosofie ed estetiche, all'idealismo attuale, allo slancio vitale, a Cuyau, a Bergson, alternate con, goffi o puerili avanzi della Scapigliatura e del positivismo.

Nell'aprile 1910 i cinque sottoscrissero un nuovo Manifesto tecnico della Pittura futurista, che tutt'assieme si riduce a una sorta di divisionismo evoluto in «complementarismo congenito» e non meglio spiegato.

Ma il pasticcio tuttavia aumenta, se possibile, con madornali incongruenze fra principii come quello di un naturalistico dinamismo plastico e come quello, invece, di una superficie Sezession, ossia uno spazio privo di terza dimensione, senza profondità, decorativo e simbolico; e ancora con un fanatico e gelido guazzabuglio di Eraclito e di panta rhei, di Medardo Rosso, di istantanea fotografica e di cinematografia, di fenomeni medianici e di Eusapia Paladino, di raggi X e di Copernico..

Logico, dunque, in certo qual modo, che da tanta confusione e magari da monellesco scherzo e scherno derivi o si voglia far derivare tutto un continuo avanguardismo e sperimentalismo e avventurismo artistico, antiartistico, extrartistico.

L'unità e l'identità fra sensazione e creazione, e fra idea e forma, e fra materia e ideale.

Il trascendentalismo fisico.

La rappresentazione di una realtà interiore, irrappresentabile, rappresentata, così per dire, mediante i consueti mezzi esteriori, e infatti promossa e garantita appena con sonanti parole.

E quindi l'astrazione plastica, inconcepibile.

E l'arte astratta tutta.

L'immissione e la partecipazione dello spettatore entro l'opera d'arte.

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La visione e apparizione molteplice, simultanea.

Lo sconfinamento, l'apertura dell'arte.

Le nuove tecniche di espressione o di inespressione, di incomunicabilltà.

E i nuovi mezzi per la comunicazione di massa.

Il culto della nostra meccanica, della scienza e della tecnica, della nostra civiltà industriale.

Ma perfino la combinazione, l'esposizione e l'irrisione degli oggetti di consumo.

Eccetera eccetera.

Del resto, già Marinetti affermò che al futurismo debbono lo stesso cubismo e il dadaismo e il surrealismo eccetera.

Praticamente la ricetta della pittura futurista deriva però, anzitutto, da due altre pitture: l'iniziale cubismo francese, quello «analitico»; e il più o meno scientifico divisionismo, italiano e francese.

Secondo i futuristi, il futurismo non dovrebbe nulla al cubismo perché questo cubismo degli inizi scompone, sì, l'immagine, ne mostra, sì, tutte le facce simultaneamente, ma lasciandola ferma, statica ed è quasi monocromo, grigiastro, brunastro: mentre il futurismo scompone, ma con originale dinamismo plastico; ed è spesso assai colorato.

Certo resta egualmente che i nostri pittori presero molto da Picasso, Braque, Gris.

Così come resta sicuro che prima ancora presero dai divisionisti, e dall' Art Nouveau, l'idea del movimento, o dinamismo che si voglia, e delle linee-forza e forme-colore; mentre anche dai divisionisti prendevano il colore puro, «fondamentale», e mentre dai fauves, dal balletto russo, primitivisti tedeschi, prendevano il colore messo fuori tono naturale.

Ma opere interamente e nettamente futuristiche si videro solo nel 1911, a Milano, alla Prima Esposizione Libera, una sorta di Indépendants.

Fra le quali, di Boccioni, La città sale (intitolata allora Lavoro) e La risata (derivazione da Maliavin, russo abile e «selvaggio», pirotecnico precursore di espressionismi in rosso e verde); di Carrà i Funerali dell'anarchico Galli; di Russolo il Treno in corsa nelle flotte.

Sembra abbastanza logico che l'Ottocento terminasse col divisionismo e che il Novecento principiasse col divisionismo.

Meno logico che dal divisionismo venisse però subito il futurismo.

Infatti Balla, Carrà, Boccioni, Severini, Russolo, ebbero a dipingere secondo la tecnica o maniera della divisione; ma soltanto l'ingenuo Russolo poté credere sul serio in una pittura spirituale e ci credette ancor più dopo smesso il futurismo.

I futuristi sbagliarono, ecco, mutando in movimento materiale, in energismo, in dinamismo, in linee-forza, in energia e violenza prefascista, in esplosione il movimento spirituale, colore-vita-luce dei nostri socialreligiosi divisionisti: mutando il socialismo in fascismo, mutando in compenetrazione, in parossistica aggressività, lo slancio, l'ideale dei divisionisti.

Umberto Boccioni (1882-1916) e Carlo Carrà (1881-1966) sono i pittori fra i cinque del primo futurismo.

E con Luigi Russolo (1885-1947) ne sono i veri fondatori, giacché Balla e Severini più che altro lo accettarono.

Boccioni, quantunque realista nella dimostrazione dell'oggetto e benché si serva per questo delle maniere naturalistiche, postimpressionistiche e divisionistiche, rimane carico fino all'ultimo di un simbolismo elementare, talvolta puerile, e non lo supera mai.

Abbandonato il futurismo, sente il bisogno di ricostruire e torna indietro verso Cézanne, credendolo il moderno maestro della struttura (mentre si tratta, piuttosto, di un maestro del colore).

Ma prima lo aveva giudicato «più dannoso di Fidia».

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Carrà come educazione pittorica e come mestiere è meglio preparato di tutti, ricordando un naturalismo vagamente fontanesiano e avendo studiato a Brera.

Verso il 1926 torna risolutamente all'«ordine», cioè alla pittura classica italiana, giottesca, masaccesca, con un chiaroscuro disciplinato, ben ripartito, ben ritmato, con aurea proporzione e monumentalità.

Russolo è un autentico candido, ed è poi portato all'esoterico e al mistico.

Giacomo Balla (1871-1958), pittore senza sicura personalità né gusto, e tutto sommato con temperamento accademico seguita a presentare un futurismo semplificato, schematico, didattico e meccanico, ottimistico, o infine una sorta di astrattismo rigido, barocchevole, decorativo.

Gino Severini (1883-1966), eclettico di gusto scolastico, è futurista poco convinto; e presto diviene suppergiù cubista e picassiano, con una punta di compatimento verso i provinciali amici futuristi; per passare poi a una specie di classicismo e quindi a una specie di primitivismo cristiano.

Inventata e lanciata una pittura futurista, merito principale di Boccioni anche come scrittore, bisognava pure inventare una scultura futurista, un'architettura futurista, una musica futurista.

La scultura fu improvvisata (1912) con freddo fervore dallo stesso Boccioni, ispirato dall'impressionismo lombardo di Giuseppe Grandi, soprattutto nel monumento alle Cinque Giornate, e di Medardo Rosso; mediante la scultura, Boccioni si fissò più che mai sulla rappresentazione del moto veloce, cioè sul dinamismo e sulla linea-forza: qui a tre dimensioni, con effetti anche più grevi e statici che nella pittura.

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Ovviamente fissandosi quindi sulla compenetrazione di oggetti intieri e poi, per conseguenza, sulla compenetrazione di parti di oggetti, vale a dire di volumi, di superfici o piani, che con l'astrattismo acquisteranno un puro valore in se stessi.

Qualche vacua costruzione-dimostrazione di Balla può e non può entrare nel campo di una plastica futuristica.

Un minimo di coerenza imporrebbe di concepire l'architettura futurista.

Infatti a questa provvide Marinetti, soltanto nel luglio 1914, ripubblicando il messaggio, firmato da Antonio Sant'Elia (1888-1916) per una mostra a Milano nel maggio 1914 del gruppo d'avanguardia Nuove Tendenze.

Così Sant'Elia passa per futurista; ma non lo fu mai: Marinetti rimaneggiò, insieme con Decio Cinti, le dichiarazioni di Sant'Elia alla cui idea, espressione, stesura avevano contribuito molto Ugo Nebbia e alquanto Mario Buggelli, lanciandole come Manifesto dell'Architettura futurista.

Le paginette originali firmate Sant'Elia servivano a spiegare, esposti appunto dalle Nuove Tendenze, certi suoi progetti fantastici, capricciosi, praticamente senza planimetrie, ispirati un poco dall'Art Nouveau, quantunque detestasse questo stile, parecchio dal grattacelismo secessionistico, con ricordi di Otto Wagner e dei suoi seguaci, dalla scenografia, forse, del Piranesi delle Carceri, e ancora dall'edilizia utilitaria americana, da una subcosciente ammirazione per la fantascienza di Jules Verne e, si capisce, dal simbolismo e dinamismo di Boccioni.

Soprattutto nell'edizione marinettiana, il Manifesto annunzia una voglia di rottura contro il passato e di rivolta globale, palesando un vecchio carattere anarcoide, con i soliti complessi d'inferiorità verso la cultura, con un romanticismo grezzo, elementare, ragazzesco.

Amore per il movimento in se stesso, per la velocità e dunque per il macchinismo, e quindi necessario il transitorio: casa nuova a ogni generazione, e anzi Sant'Elia soleva dire che le case debbono durare un giorno.

Fra le altre numerose incoerenze e incongruenze, pare che tuttavia si esiga una riconquista del volume e un'integrità dell'edificio; che, effettivamente, nei disegni di Sant'Elia sorge assai spesso monumentale e retorico.

Sempre nei disegni, come nello scritto originale, abbiamo una visione urbanistica d'ordine complicato artificiosamente e semplicisticamente, con strade e piazze su diverso livello, con ponti, gallerie, sottopassaggi, scale mobili, ascensori, torri e fari, con stazioni d'aeroplani e con simili sogni «tumultuanti» sul motivo della tecnica americana e tedesca e del Meccano: eppoi, lo stesso, a parole, un desiderio di armonia spirituale fra l'ambiente e l'uomo.

Gli architetti che vennero dopo non si curarono granché di Sant'Elia, delle sue idee.

E, quanto al Manifesto, un'architettura futurista non esistette mai; salvo nei tentativi d'avanguardia teatrale, appunto il transitorio, specie balletti, e negli sforzi di illustratori e decoratori.

Alla musica rimediarono il musicista regolare Balilla Pratella (1880-1955), lodatore di Mascagni e detrattore di Puccini, con Manifesti del 1911 e del 1912; e Luigi Pussolo con L'arte dei rumori, Manifesto del 1913, e fabbricando degli «intonarumori», che anticipano la musica elettronica. La letteratura futurista val certo assai meno che la pittura e la scultura.

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Dato che in letteratura i valori formali scissi di per se medesimi, senza un poetico ed etico contenuto e scopo, senza perfino un tema preciso, non possono sussistere davvero.

E anzi non possono manco manifestarsi, e suppergiù debbono ridursi a puro vocabolario, sì e no ritmico, sì e no musicale mentre in sé l'esteriore e il mezzo della pittura e della scultura, ammessa la scissione, qualcosa di meglio, qualcosa di più piacevole o di simbolico possono suggerirlo.

Gli scrittori noti che aderirono al futurismo, ma così, senza impegno, furono Aldo Palazzeschi e Giovanni Papini.

Il più convinto poeta futurista fu Paolo Buzzi, quanto di più aulico si possa immaginare.

Notevoli, in un secondo futurismo, Ardengo Soffici, Mario Sironi, Achille Funi, Ottone Posai, Primo Conti, e proprio a volere, Giorgio Morandi.

In un secondo o terzo futurismo, quando ingenuo e quando furbo, lasciate perdere un quarto quinto eccetera, fino al nostro stesso oggi, si possono rammentare Enrico Prampolini come il più ricco di carattere, e Fortunato Depero, Fillia (Luigi Colombo), Gerardo Dottori: restano però sempre quelle elementari, confuse velleità del primo futurismo: movimento, velocità, luce chefiniscono nel fermo e nel cieco; simbolismo per geometri e capomastri.

E dalla velocità, dal dinamismo, dalla macchina, dall'aeroplano, si passerà, ridicola gara con la scienza, al concetto di spaziotempo, assolutamente estraneo per i primi cubisti e per i primi futuristi che venivano gli uni da Cézanne, gli altri da Previati e da Pellizza: infatti, e solo assai tardi, furono i letterati a voler far apparire quali magi e profeti delle moderne teorie filosofiche e scientifiche i loro amici pittori e scultori d'avanguardia.

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E così, i futuristi della seconda, terza, quarta leva vollero insistere più che mai in una buffa futurologia a furia di «spazio».

Sempre ignorando che lo spazio è una categoria, scoperta che risale a Kant, non un'entità fisica; e più che mai condannandosi in un greve materialismo, quantunque cambiassero molti nomi: aeropittura e circumvisionismo, idealismo sensoriale e astratto mistico tattilismo e polimaterismo, spazio-tempo e tempo-spazio... eccetera.

All'esterno il futurismo poté agire più o meno direttamente su vari sincronismi, vorticismi, stroboscopicismi eccetera in Francia e in Inghilterra; ma più agì su movimenti russi, o russo-tedeschi, conosciuti coi nomi di cubofuturismo, di nonoggettivismo, di costruttismo eccetera: supergiù concludibili in svariati astrattismi.

E permessi ufficialmente con la rivoluzione del 1917; ma non molto accetti al comunismo ufficiale del 1919.

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