«I populisti Bulgari» di Leonardo Pampuri


Alla fine del secolo scorso nasce in Bulgaria, come movimento di reazione all'idealismo, una nuova corrente detta dei «populisti». Essa rivolge le sue simpatie alla vita del villaggio che ospita la grande maggioranza della popolazione bulgara e costituisce pertanto la vera realtà del Paese. Gli scrittori di questa tendenza si proponevano la difesa del contadino dai soprusi dei corrotti funzionari governativi e dai raggiri di tutti coloro che volevano, con la superiorità della cultura o del censo, profittare della sua debolezza. Auspicavano pertanto la diffusione dell'istruzione tra la gente di campagna, ritenendo che solo così essa avrebbe potuto liberarsi da una forma di schiavitù che praticamente la conservava nello stato in cui era rimasta durante tutto il lungo periodo della dominazione ottomana. Tra i molti scrittori di questo periodo merita particolare riguardo Elìn Pelìn (1878-1949), per la sintesi che operò in un'epoca in cui la letteratura bulgara era caratterizzata dal tramonto di vecchie correnti e dal sorgere di nuove. Elìn Pelìn è lo pseudonimo di Dimitar Ivanòv, ormai passato nel novero dei migliori scrittori bulgari. Nato presso Sofia, nel piccolo villaggio di Bàjlovo (oggi Elìn Pelìn), lo scrittore vi trascorse l'infanzia in diretto e continuo contatto con la natura, partecipando alla vita dei contadini, dei quaii conobbe usi, costumi, credenze, linguaggio, e con i quali condivise gioie, dolori, aspirazioni. Compiuti gli studi ginnasiali, il giovane Dimitar avrebbe voluto frequentare la scuola di disegno, perché si sentiva particolarmente inclinato verso quell'arte, ma non gli riuscì e dovette darsi all'insegnamento. Iniziò la sua carriera di maestro proprio nel paese natale, dove, tra la semplice gente della sua terra, poté consolidare quei legami che ne avrebbero fatto il narratore delle vicende di tutta la classe dei contadini; e poiché la Bulgaria d'allora era nella stragrande maggioranze un paese di coltivatori della terra, Elìn Pelìn può essere considerato un aedo del suo popolo. Lo stesso anno in cui Elìn Pelìn nasceva, la Bulgaria, dopo quasi mezzo millennio di schiavitù, si liberava della dominazione ottomana, e mentre lo scrittore muoveva i primi passi nei campo delle lettere, il suo popolo, finiti i tempi delle lotte leggendarie contro l'oppressore, si venne a trovare di fronte a gravi problemi interni da risolvere. In quegli anni il contado comincia a dare i primi segni di intolleranza per le tristi condizioni di vita e di lavoro ereditate dal periodo del servaggio e non ancora alleviate. E' allora che lo scrittore inizia la pubblicazione dei suoi racconti; generalmente compresi entro i limiti delle poche colonne concessegli da qualche periodico, essi mettono tuttavia in evidenza la dura fatica di chi è legato per tutta la vita alla terra. Pelìn vede le cause di questa forma di schiavitù nella tirannide del capitale, nella dabbenaggine della classe borghese, nella corruzione del clero. Ma la sua protesta contro tale stato di cose non assume mai toni polemici; la sua critica - che solo contro il pope o il monaco si fa talvolta aspramente mordace - è improntata a bonario umorismo. In questo atteggiamento di Elìn Pelìn si è voluto vedere l'influsso di Maksim Gorkij, ma in lui non c'è la vena polemica del russo, ed è inesatto affermare che abbia subito influssi da chicchessia. Egli è bulgaro in modo schietto e originale, è un contadino che ha imparato a scrivere, che scrive bene e che, servendosi della stessa lingua del popolo, ne esprime con impareggiabile maestria tutta l'anima fresca e profonda. Le questioni sociali e politiche che allora erano molto gravi nel piccolo Stato di nuova formazione, dove tutto era da fare, non vengono da lui affrontate col proposito di risolverle. Egli è soprattutto un realista che vede le situazioni e le descrive senza la pretesa di porvi rimedio e nemmeno di discuterle. Non prende mai parte diretta nella narrazione, lascia che eventi e persone si presentino da sé. Né mai si scaglia direttamente contro il male che perseguita i suoi eroi. Questo non toglie però che traspaia evidente la sua simpatia per il misero in generale e per il contadino in particolare, oppresso da tasse e gabellieri, lasciato nell'ignoranza della quale approfittano il sindaco, l'avvocato, il prete; abbruttito dal lavoro, senza altro diversivo che l'osteria dove affoga nel vino tutta l'amarezza che la miseria gli procura. Il compito di trarre le conclusioni è lasciato al lettore. Di fronte alla realtà della vita contadina, resa amara dalle difficoltà naturali e dalla malizia umana, i protagonisti dei suoi racconti assumono due atteggiamenti: uno di rassegnazione supina, fatalistica; l'altro di ribellione, ma individuale, isolata, fine a se stessa: mai quindi il sorgere di una coscienza di classe e tanto meno di una esigenza di lotta sociale. Taluno ha rimproverato a Elìn Pelìn questo atteggiamento, ma esso è esattamente lo specchio della realtà di allora. Del resto, i protagonisti di questi racconti non ricordano forse quello che era stato per cinquecento anni il destino di tutto un popolo di fronte alla terribile oppressione ottomana? E come avrebbe potuto sorgere una coscienza di classe e di lotta sociale nei pochi anni che separano la liberazione della Bulgaria dalla stesura dei racconti di Elìn Pelìn? Dimitar Ivanòv non si fermò al racconto; fu pubblicista attivissimo, scrisse bellissime poesie per bambini, compilò antologie per le scuole e infine tentò anche il romanzo. A quest'ultimo genere si può dire appartengano i due suoi scritti di più ampio respiro: Geràzite (Gli sparvieri) e Zemià (Terra). Il primo è la storia della disgregazione morale e materiale di una famiglia di contadini benestanti la cui vita patriarcale era fondata sull'onesto lavoro. Alla morte della vecchia madre, il più giovane dei figli abbandona la terra per prolungare la propria ferma nell'esercito. In città egli diviene preda dei vizi e si disinteressa della moglie e dei piccoli lasciati in paese. Il secondo figlio si rovina dandosi al bere; rimane il terzo che, assetato di ricchezza, vede nella rovina dei fratelli la possibilità per lui di impadronirsi di tutta l'eredità. Così, una salda compagine familiare si sfalda e una prospera proprietà terriera basata su sani principi comunitari si trasforma nel possesso di un solo avido padrone, destinato a divenire uno sfruttatore del lavoro altrui, un «kulàk». Il fenomeno di questa trasformazione del contadino in «kulàk» è l'argomento del secondo racconto, di maggiori proporzioni. Ennio, in preda al demone del possesso, rinuncia alla bella ma povera Zveta e sposa la ricca e storpia Stanka. Da questo momento la sua vita si risolve in una continua, avida cupidigia di quella terra che egli non sa più amare ma solo bramare. Per possedere anche i terreni del fratello, tenta di ucciderlo; questi si salva, ma rimane smemorato e sordomuto: tacito accusatore del crimine. Ennio trova nella bettola l'unico, momentaneo e fallace sollievo al tormento dei propri rimorsi, finché giunge anche per lui la tragica fine. La buona vena di narratore e di ritrattista di Elìn Pelìn si esprime nei racconti: brevi, in genere, ma perfetti e succosi. I vari tipi ne balzan fuori delineati con tratto magistrale, quasi che, non essendogli riuscito di diventare un pittore, egli abbia trasferito l'innato spirito d'osservazione nei suoi scritti, lavorando di penna come avrebbe voluto lavorare di pennello. Il soggetto del quadro, ora è un vecchio contadino, ora una ragazzetta di paese, ora un mendicante; un sagrestano, una coppia di sposi novelli, una maestrina innamorata; zingari, ubriaconi, buontemponi d'ogni genere, ricchi mercanti e povere vedove; e sempre, come sfondo, la campagna, il villaggio, le quattro case con la chiesa, dove, appena può, l'autore penetra per andare a dare una tiratina d'orecchie al «pope». E intanto che ci presenta i suoi personaggi, par di scorgergli sulle labbra quel bonario sorriso di uomo senza pretese e di piacevole narratore. Dopo aver ritratto ogni particolare delle più svariate situazioni, rispecchiandone con profonda umanità i lati allegri o tristi, buffi o patetici, dopo aver presentato una moltitudine di tipi, dopo aver descritto in mille modi il tempo e i luoghi, questo simpatico macchiaiolo pare ritrarsi in buon ordine ponendo davanti al lettore una galleria di bozzetti, piccoli capolavori di un grande artista, che lasciano stupefatti e fanno pensare. Elìn Pelìn è un realista, abbiamo detto, ma non è a credere che si limitasse a ritrarre senza nutrire un suo intimo impulso ideale. Basterebbero a provarlo le parole che l'Autore mette in bocca al protagonista di uno dei più belli fra i suoi racconti, «I falciatori». Un povero contadino che ha il dono di saper narrare favole, interrotto nel suo racconto da un «.... tutte frottole!» lanciato da uno degii ascoltatori, «Questa - gli risponde - è una fiaba, capisci... A che ti serve la realtà? Vuoi ch'io venga a parlarti per esempio delle brache sbrindellate di nonno Teodoro, o della sgualcita berretta del "pope"? O vuoi ch'io mi metta a raccontare di noi, poveri in canna, partiti con la falce in spalla e con un tozzo di pane di granoturco nella bisaccia, noi che abbiamo calcato strade e sentieri tutta una settimana per arrivare fin qui, in Tracia, a falciare? Eccoti, amico mio, la realtà. Ma a che ti serve questa arida realtà?». E l'altro, che intanto si è fatto meno mordace: «Ma, e queste cose inverosimili che tu mi stai raccontando, a che mi servono?». E il narratore: «Inverosimili ma belle! Ascolti, ascolti e distraendoti dimentichi... ed ecco che l'inverosimile ti par diventare realtà, t'immergi in esso e ne vieni trasportato. Per questo ci sono le favole, per questo la gente le ha inventate. Anche le canzoni hanno questo scopo, quello di tirarti fuori dalla realtà e farti comprendere che sei un uomo».

 

eXTReMe Tracker

Shiny Stat

free counters