«Il blues di Robert Johnson» di Marco Pastonesi


Oltre al telegrafico certificato di morte, gli unici documenti che possano testimoniare la vita e la figura di Robert Johnson sono ventinove canzoni registrate a San Antonio nel 1936 e a Dallas nel 1937, nel Texas. Né Johnson né i suoi familiari protessero con i diritti d'autore i pezzi, che ora vengono semplicemente dichiarati di dominio pubblico. Significa che chiunque può suonarli attribuendosene la paternità. E gli interpreti non si contano: sono centinaia, migliaia. Ma di dominio pubblico non è certo la storia di Robert Johnson, rimasta ancora misteriosa e leggendaria, per sempre avvolta nel mito come quella degli antichi eroi. Probabilmente Robert nacque nello stato del Mississippi negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. I suoi genitori - la madre Mary ed il patrigno Robert «Dusty» (polveroso) - erano dei braccianti e lavoravano nelle piantagioni di cotone presso il delta del fiume: il tenore di vita era terribilmente basso, si viveva in capanne nella più nera povertà, il lavoro era estenuante, il clima caldo-umido atroce. Appena i giovani diventavano fisicamente indipendenti dalle loro famiglie, subito tentavano la fortuna nelle cittadine, cercando il lavoro, le donne, i soldi, i divertimenti negati dalla vita dei campi. Anche il piccolo Johnson si mostrò insofferente delle privazioni familiari e non appena si presentò l'occasione, se ne andò da casa. Lo spunto fu una delle tante feste da ballo del sabato sera. Eddie «Son» House, il musicista che forse influenzò maggiormente lo stile di Johnson, racconta che Robert era allora soltanto un ragazzino, che sapeva soffiare nell'armonica e voleva imparare a suonare la chitarra. Per questo scappava di casa, magari dalla finestra, dopo aver finto di essersi addormentato, e raggiungeva il luogo della festa, sedendosi proprio davanti ai musicisti, Willie Brown e lo stesso «Son» House, e rivolgendo l'attenzione ora alle dita dell'uno ora a quelle dell'altro, che si muovevano agili e sicure lungo i manici delle chitarre. Ma quando prendeva in mano lo strumento, non riusciva a cavarne che suoni incerti, e la gente lo implorava di smettere. Willie Brown e «Son» House rividero il terribile ragazzino circa sei mesi dopo: aveva con sé una chitarra e quando pizzicava le corde, lasciava tutti senza parole. Assolutamente straordinario. I tre rimasero insieme ancora per una settimana, poi le loro strade si divisero. Prima di lasciarsi, «Son» House ricorda di aver ammonito Robert riguardo le donne, le quali, spesso eccitate dalla musica e dal whisky, sarebbero potute diventare molto disponibili e altrettanto pericolose. In seguito Johnson viaggiò e suonò a lungo con un altro musicista, Johnny Shines: si incontrarono nel 1933 nell'Arkansas, esattamente a West Helena. Shines confessa che il carattere del suo compagno era sorprendente, strano e volubile, talvolta estremamente amichevole, altre volte scontroso e cupo. Era il tipo che scompariva per delle settimane e poi ritornava come se nulla fosse accaduto. A quel tempo si dice che Robert vivesse con una donna, Esther Lockwood, molto più vecchia di lui, la quale aveva un figlio solo di qualche anno più giovane del nostro bluesman. Si chiamava Robert Junior Lockwood e imparò a suonare la chitarra proprio da Johnson: diventò uno dei più validi esponenti del blues eseguito nello stile di Chicago. Nel 1935, temporaneamente lasciata la compagnia di Shines, Robert Johnson si unì a St. Louis ad un altro chitarrista, Henry Townsend. Disoccupazione, povertà, solitudine, violenza. Quando se ne andò via, Robert disse al suo amico che si sarebbe recato a Chicago. Ma nulla, in verità, si conosce di questo periodo di vagabondaggio. Sappiamo solo che il 23, il 26 e il 27 novembre 1936 si trovava a San Antonio; e che sette mesi dopo, il 19 e ii 20 giugno 1937 era a Dallas: in queste occasioni registrò le ventinove canzoni. Il produttore della casa discografica ce lo descrive addirittura diciannovenne e appena andato via dalla piantagione, un ragazzo nero di altezza leggermente superiore alla media, dalle bellissime mani, le lunghe dita affusolate, il magnifico aspetto. Questo ritratto non coincide però con quello tracciato da un altro musicista del Delta, David «Honeyboy» Edwards, che ce lo rivela alto, bruno, con un occhio malato, probabilmente affetto da cataratta. Le famose registrazioni ebbero una travagliata storia. Law, il produttore, gli trovò una stanza in una pensione e gli suggerì di riposarsi bene per essere pronto ad incidere il mattino seguente di buon'ora; poi se ne andò a mangiare con la moglie e gli amici in un ristorante. Si era appena seduto a tavola, quando venne chiamato al telefono: era un poliziotto che gli diceva che Johnson era stato arrestato durante una retata di vagabondi. Law corse alla prigione e trovò Robert pestato e la sua chitarra sventrata. Non senza difficoltà, lo fece rilasciare dietro cauzione, quindi lo accompagnò nuovamente alla pensione, infine gli diede quarantacinque cents per il breakfast, ma facedosi promettere che sarebbe rimasto in casa per il resto della serata. Non appena ritornò nel ristorante, Law venne chiamato al telefono una seconda volta: temette il peggio. Era Johnson, che gli sussurrava: «Mi sento solo». Confuso, Law rispose: «Ti senti solo? Cosa vuoi dire, ti senti solo?». E Johnson replicò: «Mi sento solo e qui c'è una donna. Vuole cinquanta cents e me ne mancano cinque». Dal tempo delle incisioni non si seppe più nulla del grande bluesman. Nel 1938 l'organizzatore John Hammond voleva invitare Robert allo spettacolo «Spirituals To Swing», che si teneva nella maestosa Carnegie Hall di New York. Law lo sconsigliò: «Penso che tu stia commettendo un errore, perché se lo metti sul palcoscenico della Carnegie Hall, lui morirà di paura». Ma tutte le ricerche si rivelarono inutili: si diceva che Johnson fosse stato assassinato durante l'estate. A nessuno importava se un giovane nero moriva nel Mississippi: il certificato di morte, infatti, nulla specifica oltre alla data: 16 agosto 1938. Si racconta che venne ucciso dopo una festa da ballo a Greenwood. «Son» House e Johnny Shines, invece, riportano tre differenti versioni: l'assassinio, l'avvelenamento da parte di una donna, l'uccisione con la magia nera. E di tutte queste l'ultima è l'ipotesi meno probabile ma più suggestiva. Che fosse appunto un tipo diabolico, nessuno ne dubitava. I testi delle sue canzoni, il modo di pizzicare le corde della chitarra, il mistero che avvolgeva le sue avventure, il fascino verso le donne, il carattere tetro ma amichevole, tutto insomma dava adito alle più disparate ipotesi. Il contributo di Robert Johnson alla musica afroamericana fu assolutamente personale: pur risultando talvolta evidenti gli insegnamenti di Son House o l'influenza di Skip James, il musicista del Delta sviluppò e perfezionò uno stile affatto originale, mettendo in contrasto un pesante accompagnamento sulle corde basse con i glissati acuti delicatamente sinuosi, usando accordi molto marcati oppure leggerissimi, commentando a parole o a sussurri il proprio canto. Quando teneva il tempo regolare con la chitarra, allora faceva delle variazioni con la voce; oppure teneva il tempo con la voce e faceva fluire liberamente la chitarra.
L'effetto era l'espressione non solamente del dolore e della tristezza, ma anche di una liberazione sensuale e gioiosa. In alcuni pezzi l'uso del «bottleneck» (il collo di bottiglia) creava momenti intensamente emozionanti. Probabilmente Robert si serviva non di un tubetto metallico né di un anello largo e piatto, ma veramente del collo di una bottiglia, tenuto sul fuoco fino a quando il bordo non si fosse completamente levigato. Lo stile stratificato si prestava naturalmente ad essere arrangiato per gruppi con strumenti amplificati: il piano, per esempio, poteva svolgere la parte di basso insieme al contrabbasso e alla batteria, mentre alla chitarra elettrica e all'armonica spettavano le parti acute. E' ciò che accadde quando il nostro bluesman (che possiamo tranquiilamente classificare come campagnolo) venne «importato» a Chicago (e quindi reinterpretato in chiave elettrica-urbana) dagli stessi neri che là dovettero trasferirsi in cerca di lavoro. Ma le prerogative della sua vita e della sua poetica (alienazione, solitudine, erotismo, dolore, amore) trovarono una continua, straordinaria ed inquietante eco. Per Johnson i blues non erano solamente le tristezze, le malinconie, i dolori di una dura esistenza quotidiana, ma persone: in «Preachin' Blues» sono prima un uomo e poi un misero e fetente ladro. Le donne hanno un nome e una storia, personale e non ereditata dalla tradizione popolare: in «Phonograph Blues» è Beatrice, in «Dust My Broom» è Thelma, in «Walkin' Blues» è Bernice, in «Honeymoon Blues» è Betty Mae, in «Last Fair Deal Gone Down» è Ida Belle, in «Love In Vain» è Willie Mae. L'erotismo è fra i più spinti, seppure velato da (non troppo) sottili doppisensi: «Dimmi, mucca, che cos'è che va male? Hai un vitellino da latte, e il tuo latte diventa blu. Il tuo vitello ha fame, credo che abbia bisogno di succhiare, ma il tuo latte diventa blu, credo che sia andato a male. Ho voglia di poppare e la mia mucca non verrà, ho voglia di masticarlo e il mio latte non apparirà, grido per favore, per favore non trattarmi male, se vedete la mia mucca, per favore conducetela a casa. La mia mucca ha vagato in giro per miglia e miglia, e ora si è sistemata con il toro di un altro uomo, in questa stessa città» («Milkcow's Calf Blues»). Un altro tema assai tipico delle canzoni di Johnson è costituito dal diavolo, che viene menzionato in sei blues. In uno di questi, «Me And The Devil Blues», Robert canta: «Stamattina presto, quando hai bussato alla mia porta, ho detto "Salve Satana, credo che sia ora d'andare". Io e il diavolo camminiamo l'uno accanto all'altro, picchierò la mia donna finché non sarò soddisfatto». E in «Hellhound On My Trail» confessa: «Devo muovermi sempre, devo muovermi sempre, i blues cadono come grandine, i blues cadono come grandine, e il giorno continua a ricordarmi che c'è un demonio che mi segue, un demonio che mi segue, un demonio che mi segue». E ancora amore (in «Love In Vain») e amicizia (in «When You've Got a Good Friend»), sentite e sofferte intensamene, come solo un grande artista può provare, descrivere, creare. Un artista apparso come un lampo e svanito nel nulla.

 

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