«I due "Barbieri"» di Riccardo Bacchelli
Sul teatro d'opera, l'ultima parola del Settecento, con Mozart divino, è aristocratica; la prima dell'Ottocento, con l'umanissimo Rossini, è popolare. Standoci al comico, Mozart sorride, ride Rossini. Ride ed esilara lo spirito, dono raro, qualità essenziale, virtù salubre e sanificatrice. C'è nel «Barbiere» un che d'affascinante, che tiene della natura italiana, ma va nel significato universale del bello: e il suo bello non è prefisso, come il suo riso non è intenzionale, e sgorga tutto spontaneo. Il suo bello sta in un'armonia creata naturalmente, come in una beltà di natura, dall'agevolezza delle giunture, delle mosse, delle proporzioni, dall'agevolezza di queste cose e dell'espressione, nella fusione tra la cosa rappresentata e l'animo dello spettatore, essenziale in teatro e propria a quest'opera come fatto spontaneo e di natura. Qui v'è quel tutto dimenticare e ricordare tutto, quello scorger noi e l'animo nostro particolare in figure ed azioni universali per virtù d'arte; qui è dato sognare a occhi aperti e illuminati, e ridere di meraviglia, di piacere. Di piacere: in quante opere accade? Mette conto, finalmente, di rilevare che conquistare l'Italia per tale opera non poteva essere altro che il gioioso incontro d'una affinità naturale, ma che in Italia stessa e all'estero l'irresistibile successo del «Barbiere» esasperò e fissò l'avversione degli antirossiniani. Se l'insinuazione della nostrana «Biblioteca teatrale»: «Nella seconda sera l'opera risuscitò: il teatro era pieno e la cassa del botteghino semivuota: il segreto magico riuscì», fa alzar le spalle; se la profezia di corta vita della critica londinese nel 1818 fa sorridere; a Parigi, l'anno dopo, il giudizio della critica e sulle prime il gusto della gente opposero le tradizioni italiane del «canto puro ed espressivo» anche più e più generalmente ed ostinatamente che non si facesse in Italia dalle conventicole dei cattedratici, dei retrospettivi, degli scontenti. Curiosa a notare l'insensibilità, l'impressione di quelle critiche, direttamente opposta a ciò che da quasi un secolo e mezzo ormai raccoglie il consensus gentium del mondo: «composizione penosa, faticosa, priva di melodia cantabile», «insignificante», «lavoro fiacco, incoerente, privo di carattere e di unità». Ma «bisognerebbe - scriveva il critico del Journal de Paris - aver le orecchie foderate d'osso, per divertirsi a questo Barbiere», giudicato o strepitoso e irritante, o vuoto e noioso. E da Parigi l'autorevole corrispondente della autorevolissima Allgemeine musikalische Zeitung di Lipsia compendiava i giudizi parigini e mirava a prevenire e predisporre quelli di Germania: «Che si direbbe in Germania, se un compositore volesse rimettere in musica un'opera di Mozart? Caotica confusione plumbea pesantezza, disperati contorcimenti, insensata intemperanza che non ha misura né fine: ecco i caratteri principali della composizione rossiniana. Al suo confronto l'opera dei Paisiello ci appare glorificata in quelle sublimi regioni dove non possono giungere le ampollosità, le intemperanze, le barocche sofisticazioni di certa musica». Così il corrispondente dell'autorevole gazzetta musicale, Sievers, «con animo profondamente sdegnato», contro l'opera meno ampollosa, meno contorta e confusa, fra quante furono e sono, dotata d'una vitaiità che il tempo ha dimostrato. Il Sievers poteva essere un autorevole citrullo, ma rispondeva a un'opinione che in gran parte della critica europea per un po' fu unanime; e Augustin Thierry concordava con lui in Francia, mentre più tardi in Italia Carlo Botta (si vede che Rossini aveva più fortuna coi filosofi che non cogli storici: ma fors'è che il Thierry e il Botta sono storici in grado troppo inferiore di quanto non fosser filosofi lo Schopenhauer e uno Hegel, ammiratori del «Barbiere», rossiniano) era esasperato dalla voga di opere che non aveva mai potuto ascoltare fino alla fine, d'un «Barbiere», di un «Mosé»: tanta noia e tanto mal di capo gli davano; e si scrisse ad epigrafe d'una statua di Paisielio da lui fatta fare al Marocchetti quasi per voto espiatorio, «rossinicae sectae reboantia deliramenta pertaesus». Ma a Parigi avevan preparato qualcosa di più e di meglio che non fossero state le gazzarre paisielleggianti romane e gli sfoghi dei paisiellisti d'ogni parte d'Europa: «Si annuncia - così il Journal des Débats ii 29 ottobre, tre giorni dopo la prima del Barbiere rossiniano - il Barbiere di Paisiello». E preconizzava da tale ripresa un trionfo sul competitore, non che sicuro, solenne. Infatti, il «Barbiere» del Paisiello resse tre sere, e alla quarta fu dovuto sospendere perché il teatro era vuoto. La critica aveva avuto un bel dire, si vede che il giudizio popolare ingenuo aveva bell'e capito; ma quando la critica prende delle cantonate, l'obbligo di ragionarle la mena ad essere e più ottusa e più pervicace. L'opposizione e i suoi argomenti interessano in quanto dimostrano quanta novità e originalità e stranezza parve ai contemporanei in un'opera, che sembra a noi la naturalissima fra le naturali.
