«Ferrari, l'uomo delle automobili» di Giovanni Lurani


Nella primavera del 1927 si disputò il classico circuito di Alessandria riservato alle Vetture Sport. In questa occasione incontrai per la prima volta Enzo Ferrari, che vinse la corsa in assoluto con un'Alfa Romeo RLSS mentre io, al mio primissimo circuito, arrivai terzo assoluto e secondo di classe con una Derby 1100 cc. Sono quindi cinquant'anni di conoscenza, e vorrei dire di amicizia, se con Enzo Ferrari è lecito essere amici! Si tratta, in certi casi, di essere amici con un leone, che può essere il leone di Androclo, quindi buono e generoso, ma può anche tirare certe zampate che lasciano il segno. Nel 1930, Enzo Ferrari, che già aveva fondato la famosissima «Scuderia Ferrari», mi offrì di correre per la sua Scuderia nella Mille Miglia con un'Alfa Romeo 1500 cc e io rinunciai per... ragioni sentimentali. Credo di essere stato l'unico pilota che abbia mai rifiutato un'offerta di Ferrari. Non vado certamente fiero di questo presunto primato: me ne pento ancora oggi! Scuderia Ferrari, Alfa Corse, Auto Avio Costruzioni nel 1940, primo sintomo della volontà di Ferrari di costruire in proprio, e poi la guerra. Durante la guerra Ferrari riuscì a realizzare, con i pochi mezzi che aveva allora, una perfezionatissima costruzione di macchine utensili raffinate e preziose che valsero una grande esperienza specifica e la possibilità, alla fine del conflitto, di avere un'officina bene attrezzata. Io stesso non fui estraneo, assieme a Franco Cortese, che poi fu il primo pilota di una Ferrari in corsa, alla parentesi delle macchine utensili di Ferrari ed anche ad un progetto ambizioso che coinvolgeva un nome famoso, Isotta Fraschini, un modesto ma geniale progettista come Alberto Massimino, e appunto Ferrari che doveva realizzare il prototipo. Ma la guerra e il suo epilogo sconvolsero e trasformarono drasticamente i piani, e Ferrari trovò il grande coraggio di liquidare la fiorente costruzione delle macchine utensili, che pure prometteva assai bene, e di dedicarsi interamente alla costruzione di auto specialissime da competizione e di gran classe. Un'iniziativa di certo estremamente entusiasmante, ma anche colma di rischi come è stato pienamente provato dall'eclissi di quasi tutte le iniziative similari sorte nel mondo intero. A Ferrari non bastava la costruzione di vetture di classe raffinatissime, ma intendeva anche allestire e alimentare un'intensa attività agonistica ad altissimo livello, disputando, magari contemporaneamente, con uno squadrone ricco dei più bei nomi dell'automobilismo internazionale, i Grands Prix di Campionato Mondiale, le durissime prove di Campionato Mondiale Marche, allora quasi più impegnative delle corse di «Formula 1», e magari anche le corse di «Formula 2». Un'attività intensissima, poliedrica e difficilissima da organizzare, coordinare, pilotare nel migliore dei modi e sempre nelle primissime posizioni delle graduatorie mondiali. Ferrari lo fece con eclatante successo, caso più unico che raro. E pensare che allora non esistevano gli «sponsors» miliardari e prodighi, non esistevano potenti associazioni di categoria sindacalizzate ed esose, ma si doveva fare tutto da soli. E Ferrari lo fece in modo esemplare. Si è visto che anche le maggiori Case e le squadre più famose che sono scese in competizione, dopo pochissime avventure, hanno preferito e dovuto recedere da un'attività che succhiava ogni risorsa, i migliori talenti e la capacità dirigenziale di una «équipe», e tanto più di un uomo solo. Non così Ferrari, che da trent'anni ininterrottamente ha elevato la competizione automobilistica addirittura a dogma irrinunciabile. Credo proprio che la tremenda attività e la pesante responsabilità che Ferrari sostenne da solo e in prima linea, ne abbia influenzato il carattere, già per se stesso fatto per il comando assoluto. Che cosa sarebbe stato Ferrari se fosse vissuto in altri tempi? Un condottiero dello stampo di un Colleoni; un politico degno di un Machiavelli o di un Richelieu; un sovrano assoluto (sicuramente!) rigoroso e inflessibile con sé e con i suoi sudditi? Scrivere rappresenta per Ferrari il suo «violino di Ingrés» poiché la carta stampata è una sua sincera passione. Giornalista o scrittore? Direi piuttosto scrittore, poiché, sebbene da giovane abbia anche fatto un poco di giornalismo, tuttavia, al suo carattere, l'improvvisazione giornalistica non si adatta. Infatti, possedendo un immenso e ricco vocabolario, egli ama cesellare ogni suo scritto con acuta perspicacia scegliendo i termini più appropriati, perfezionando le frasi, misurando ogni espressione secondo i suoi scopi precisi e la sua volontà. Quindi non lo credo uno scrittore di getto, ma un ottimo autore di opere più durature di un giornale. Oratore fecondo e con una prontezza e una pertinenza eccezionali, avrebbe forse anche potuto essere un grande attore. Non per nulla, in una certa occasione, un suo pilota (che credo fosse Paolo Marzotto) lo chiamò scherzosamente «Zacconi», alludendo al suo stile intenso e qualche volta addirittura tribunizio. Le conferenze stampa di Enzo Ferrari costituiscono sempre oggetto di largo interesse giornalistico e «fanno notizia» come pochissime altre. Come Gianni Agnelli, Enzo Ferrari ha il dono di rispondere esaurientemente alle domande, spesso insidiose, fatte dagli intervenuti, ma anche di lasciare i suoi interlocutori sconcertati e con il rimorso di aver fatto la... domanda stessa! Ha una memoria di ferro, è sempre documentatissimo; se qualcuno osa schiacciargli la coda, si rivolta con la rapidità e la lucida determinazione, addirittura feroce, di un crotalo. Guai averlo come nemico! Enzo Ferrari, nonostante la sua eccezionale popolarità in tutto il mondo, è un solitario introverso, nel sentire le sue «gioie terribili», come ha intitolato un suo libro, e i suoi dolori cocenti che ha cercato di dissimulare pur covandoli nell'intimo del suo cuore. Cuore? Molti, che lo conoscono appena, hanno affermato che Ferrari è uno spietato nell'intento di raggiungere i suoi traguardi e che di cuore non ne ha. Invece sono certo che, nel suo, egli possiede una grande sensibilità, una profonda capacità di affetti che spesso comprime nella quasi mistica dedizione alla «sua» Ferrari, e nella spesso errata supposizione di essere sempre aggredito da nemici che in realtà non lo sono o non esistono. Certe prese di posizione discutibili e discusse e qualche volta inopportune, comunque sempre sensazionali, possono essere ascritte a questa sua complessa personalità e alla sua vita interiore che in mezzo ad una tambureggiante pubblicizzazione di ogni suo atto e di ogni sua parola, rimane estremamente introversa. Questa sua solitudine spirituale, che del resto è spesso comune ai grandi uomini, lo ha fatto da tanti anni rimanere abbarbicato a Modena e Maranello, con l'assoluta negazione di qualsiasi viaggio o assenza da casa (e lo stabilimento è per lui come e più di una casa) che comporti una notte fuori sede. Per questa ragione Enzo Ferrari è stato costretto a giudicare cose, fatti e uomini per induzione o quanto meno da rapporti confidenziali fattigli per lo più dai suoi dipendenti fidati i quali, umanamente, hanno sempre indotto giudizi non sempre esatti che comunque non coinvolgevano le loro responsabilità. E di questo aspetto delle convinzioni che Ferrari si era fatto delle cose accadute a migliaia di chilometri di distanza, ho pagato io stesso lo scotto molti anni or sono. Come spesso accade agli uomini di grande dimensione, che per questa stessa ragione si sentono al di sopra della generalità e si astraggono in una specie di eremitaggio egocentrico, Enzo Ferrari conta universalmente su di uno stuolo sterminato di ammiratori spesso addirittura fanatici, di estimatori obiettivi, di critici compresi del loro ruolo e magari anche equilibrati, ma anche di nemici spesso feroci nei loro giudizi. Ma conta su pochissimi autentici amici. Forse la sua stessa personalità esclude un legame che, per definizione, deve essere improntato ad un'assoluta parità di rapporti ed alla massima sincerità d'espressione. Questa realtà condiziona naturalmente sia il carattere sia le relazioni che Enzo Ferrari mantiene. Enzo Ferrari ha avuto e continua ad avere le sue «gioie terribili», ma ha avuto anche dolori tremendi che ne hanno segnato lo spirito, come la scomparsa dell'adorato figlio Dino. Dolore amaro e profondo, velato spesso di inconsci e ingiustificati rimorsi. Nella sua lunga vita Ferrari ha avuto ai suoi ordini i più grandi piloti di tutti i tempi. Fu compagno di squadra di Antonio Ascari, Louis Wagner, Giulio Masetti, Sivocci, ecc. Come pilota, Ferrari era molto forte. Stilista corretto, sensibile alla meccanica, ragionatore, efficace e redditizio. L'avvento delle vetture Grand Prix, dall'anno 1925, troppo impegnative per la sua guida lineare e precisa, lo allontanarono dalle corse maggiori. Nelle squadre dell'anteguerra da lui dirette, ebbe alle sue dipendenze assi come Nuvolari, Varzi, Trossi, Fagioli, Borzacchini, Chiron, Lehoux, Brivio, Farina, Taruffi, Moll, Biondetti, Tadini e, dopo la guerra, nella sua squadra ufficiale, Fangio, Ascari, Serafini, Trintignant, Gonzales, Villoresi, Cortese, Bracco, i Marzotto, Maglioli, Parkes e poi i giovani campioni inglesi Hawthorn e Collins, Phil Hill, De Portago, Von Trips, Surtees, Ickx, Regazzoni, Lauda, ma soprattutto «giovani leoni» italiani Scarfiotti, Castellotti, Musso e Bandini. Forse è stata la tragica scomparsa di questi popolarissimi campioni italiani (gli ultimi tre caduti al volante delle sue macchine), che lo hanno particolarmente addolorato, turbato e soprattutto offeso per certe discutibili critiche giornalistiche e lo hanno indotto ad escludere piloti italiani dalla sua squadra, dopo l'ultima esperienza Merzario. Una sconcertante presa di posizione ormai ampiamente ingiustificabile e superata, che allontana dalla Ferrari i consensi unanimi e totali che meriterebbe, soprattutto quando i nuovi talenti italiani ormai non mancano e preferenze straniere appaiono del tutto illogiche. La squadra Ferrari è spiritualmente dominata da Enzo Ferrari il quale incute a tutti un timore reverenziale che spesso, per reazione a catena, crea nell'interno della squadra stessa una forte tensione psicologica che logora i rapporti personali e suscita nell'ambiente l'impressione che, se pure le vetture di Maranello, l'organizzazione di squadra, i tecnici e i meccanici sono all'apice, la vita sia straordinariamente difficile nel «clan» ferrarista e che non si possa resistervi a lungo. Oueste impressioni sono state anche avallate dai numerosi «divorzi» che ci sono stati e che spesso sembravano per lo meno sorprendenti, come pure l'ultimo della serie, quello di Lauda, tanto ricco di polemiche e pettegolezzi. E' certo che la Ferrari racchiude un fascino misterioso e sottile, e che tutti i piloti, anche se affermano il contrario, farebbero carte false per essere ammessi nella rigorosa e pesante atmosfera ferrarista, ma anche nella squadra più famosa del mondo, gloriosamente sulla breccia da trent'anni senza interruzione. Enzo Ferrari è vecchio come lo sono, del resto, anch'io che lo seguo a pochi anni di distanza, e forse si volge con rimpianto più al passato che con gioia al presente. Certamente egli aveva una più facile dimestichezza e una maggiore comprensione con i campioni di un tempo, indiavolati come Nuvolari, Ascari, Moll, con i grandi stilisti come Varzi, Chiron, Brivio, con i suoi giovani moschettieri degli anni cinquanta e sessanta, quando la pubblicità non aveva sommerso tutto e tutti con una valanga di soldi e di interessi, quando le macchine portavano ancora i colori nazionali ed erano prive di iscrizioni reclamistiche pacchiane, i piloti avevano tute vergini da patacche pubblicitarie, le auto da corsa erano ancora automobili da corsa con il loro bravo motore anteriore... non «ferri da stiro» multicolori. E' singolare che nella costruzione automobilistica, che lo ha portato ai vertici massimi sia nel campo della «Formula 1» come in quello delle «Vetture Sport e Prototipo», sia nel campo della produzione delle Gran Turismo più famose e celebrate nel mondo, Enzo Ferrari non sia mai stato all'avanguardia con soluzioni tecniche modernissime e addirittura pionieristiche. La Ferrari è sempre stata conservatrice ed è stata fra le ultime marche ad adottare nei suoi motori il doppio albero dalle camme in testa, le 4 valvole per cilindro, l'iniezione e anche lo schema «boxer», che poi non era una novità. E' stata fra le ultime ad adottare il telaio monoscocca, i freni a disco, le sospensioni a 4 ruote indipendenti, il motore posteriore e anche il motore trasversale (nelle G.T.). E' stata la prima a montare gli alettoni sulla «F. 1» ma questi si erano già visti sulle vetture americane Chaparral. Enzo Ferrari, con il suo «staff» tecnico ispirato dal suo spirito di acuta osservazione e di solerte applicazione, ha saputo sempre intelligentemente distillare le esperienze altrui e interpretarle al meglio nel realizzare le vetture che dal 1952 in poi hanno vinto Campionati del Mondo piloti a ripetizione, Campionati Mondiali Marche a bizzeffe, Coppe Costruttori di «Formula 1» in serie, e sul mercato delle «supermacchine» da Gran Turismo hanno raggiunto il limite massimo mantenendo la posizione nonostante la forte concorrenza. Enzo Ferrari è sempre stato imbattibile nel scegliere i suoi «collaboratori» (come ama chiamarli) e questo «sesto senso» lo dimostrò già nel lontano 1923 quando andò a Torino a prendere Vittorio Jano per portarlo all'Alfa Romeo dove il grande progettista lasciò una traccia eccezionale. Si è voluto paragonare Enzo Ferrari ai massimi nomi dell'automobilismo mondiale come Vincenzo Lancia ed Ettore Bugatti. Questi tre nomi sono certamente incastonati nella storia dell'automobilismo, ma non per affinità di personalità e di carattere. Vincenzo Lancia, grande pilota dell'epoca eroica, divenne geniale ed esperto costruttore nel primo decennio del secolo, tagliando corto con le corse che pure erano state la base del suo successo. Lancia aveva la meccanica nel sangue, ne intuiva le esigenze, era un ideatore originalissimo e fu un grande pioniere. Ettore Bugatti fu invece un autentico e inimitabile interprete dell'automobile che trattò sempre come una mirabile espressione artistica, che disegnò con un intuito eccezionale basato su un miracoloso sesto senso che possedeva e non sulla tecnica accademica. I particolari meccanici da lui schizzati su un foglietto di carta, al calcolo risultavano quasi sempre indovinati e necessitavano solo di infinitesime modifiche. Bugatti, oltre ad essere un esteta, era anche un personaggio estremamente estroverso e pittoresco. Un uomo che, come tale, suscitò autentici fanatismi e un «culto della personalità» perfettamente giustificato. Enzo Ferrari, invece, non ha portato direttamente un contributo tecnico all'evoluzione meccanica. E' il principe indiscutibile degli organizzatori del lavoro, della pianificazione tecnica, l'ispiratore delle più raffinate tecnologie, un autentico comandante che sa tenere in pugno il suo esercito, lo sa manovrare alla perfezione, lo sa sfruttare al meglio per ottenere i risultati e le conquiste migliori in assoluto. Appassionato e schiavo della rigida religione che si è imposto, schivo di pubbliche relazioni ed amicizie, chiuso nella cittadella del suo potere e nella cerchia dell'infallibilità delle sue decisioni. Lancia, Bugatti, Ferrari: tre colossi fondamentali nella storia dell'automobilismo, tre uomini tanto diversi fra loro. Enzo Ferrari non è eterno. Già prima della guerra, quando comandava la «Scuderia Ferrari» e poi l'«Alfa Corse» fu al centro di polemiche, discussioni e, comunque, al centro dell'interesse generale. Da trent'anni l'automobilismo tecnico e soprattutto agonistico ha ruotato, a torto o a ragione, attorno a Ferrari che ne è stato sempre l'epicentro e l'elemento condizionante. Quando Enzo Ferrari non ci sarà più, l'automobilismo continuerà e anche la Ferrari non si fermerà. Ma sarà tutto drasticamente diverso. Mancherà quella scintilla capace di suscitare entusiasmi e critiche, polemiche e consensi, e di vivificare un ambiente che il rigorismo professionale e affaristico attuale appiattisce sempre di più togliendogli ogni aspetto umano, passionale e anticonformista.

Ferrari verso il Duemila
Nel 1976 un ragazzo canadese si presenta a Maranello: ha il sorriso accattivante di Gilles Villeneuve, e presto diventerà una leggenda. Mentre Lauda, al volante della Ferrari 312 T 2, allineava tre vittorie e sei secondi posti, il focoso Gilles, nell'ultima gara del Fuji, s'impennava dopo aver tamponato la Tyrrell di Peterson, e andava a falciare il pubblico in una zona che avrebbe dovuto esser vietata: due morti, dieci feriti. Da quel momento, una lunga stagione dominata dalla Lotus impone il digiuno a Ferrari. Poi, Peterson muore in pista a Monza, Nilsson per malattia, e Villeneuve vince la sua prima gara Ferrari sul circuito di Notre Dame. Nel 1977 arriva secondo dopo Scheckter, e gli anni Ottanta ne vedranno la definitiva affermazione con due incredibili vittorie ai Gran Premi di Monaco e di Spagna (1981), anche grazie all'applicazione del turbocompressore, che Ferrari installa per secondo, seguendo l'esempio della Renault. Ma l'8 maggio 1982, durante una prova a Zolder, nel Belgio, il povero Gilles urta una ruota posteriore di Mass e dopo un pauroso volo finisce fuori pista e fuori dell'abitacolo, senza scampo. Anche un altro ferrarista, Didier Pironi, perde le gambe in un grave incidente. Nel 1983, grande predominio del turbo, coi primi quattro posti in classifica occupati da Piquet su Brabham, Prost su Renault, Arnoux e Tambay su Ferrari. Piquet finiva mondiale per la seconda volta in tre anni e un italiano, Michele Alboreto, si aggiudicava il Gran Premio a Detroit il 5 maggio, classificandosi al dodicesimo posto della Formula. Ferrari, che s'era giurato di non ricorrere più agli italiani, lo ingaggia, per la prima volta dopo dieci anni: ed ecco la scelta rivelarsi buona, perché Alboreto vince a Zolder il 29 aprile, vendicando la sciagura di due anni prima; per coronare la giornata, anche il francese Arnoux (su Ferrari) si classifica terzo. Il Cavallino è risorto e guarda con fiducia al Duemila (monografia del 1984).

 

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