«Louis Armstrong e l'impegno» di Franco Fayenz


Il jazz tradizionale non gode sempre di buona stampa, soprattutto presso i giovani, e ne ha sofferto perfino una valutazione serena dell'itinerario artistico di Louis Armstrong (New Orleans 1900 - New York 1971). E' questo il risultato (sebbene effimero e sicuramente provvisorio) di una propaganda interessata per la quale soltanto il jazz nero d'avanguardia è valido e politicamente significante. Nello stesso senso hanno concorso altri due fattori. Primo, lo schematismo talvolta dilettantistico di molte storie del jazz, per le quali si direbbe che quando un nuovo stile si sostituisce a un altro nell'interesse del pubblico, il più vecchio esce totalmente di scena. E' appena il caso di sottolineare che le cose non stanno affatto così: attualmente il jazz più diffuso negli Stati Uniti attraverso i mass media - e forse anche nel resto del mondo - è il classico; e quando Louis Armstrong e il jazz tradizionale («due cose cresciute insieme», diceva orgogliosamente il trombettista) cessarono, poco dopo il 1930, di costituire la forza traente della musica afroamericana, continuarono comunque a essere vivi e operanti. In secondo luogo c'è la pesante manipolazione del consenso attuata dall'industria delle musica - in specie dalle case discografiche - che ha letteralmente sommerso il jazz di etichette stilistiche subito fatte proprie dall'ingenuità degli «appassionati» di tipo convenzionale. Bebop, afrocubanbop, cool jazz, west coast jazz, hard bop, third stream music, jazz samba, new thing, free jazz, new hard, jazz rock, fusion sono altrettanti autoadesivi che non sottintendono un'effettiva realtà ma che in compenso servono benissimo a lanciare o a rilanciare determinati artisti a scapito di altri. Il periodo di massima pressione e di massimo inganno, a questo proposito - senza trascurare il momento spesso volgare del jazz rock e il diversivo del jazz samba, che è valso a distogliere l'attenzione da ben altri indirizzi - si è verificato probabilmente nei primi anni Cinquanta, in coincidenza con la promozione dei dischi long playing contemporanea a quella dei cosiddetto west coast jazz. Gli ascoltatori vennero sommersi da lodi sperticate per la «grande personalità artistica» o per il «singolarissimo approach» alla musica afroamericana di mezze figure di cui oggi nessuno conserva il ricordo, capaci solo di esprimere trii, quartetti e quintetti a ripetizione, tutti artigianalmente perfetti ma tutti standardizzati e privi di originalità. La corrente pseudocritica che svaluta il passato in storture che dequalificano il jazz a fatto di moda, e quanto tale non si accorge di essere figlia di queste di concorrere col suo operato a trascurare l'importanza della storia e a creare i «pezzi da museo» allo scopo di additarli al pubblico disprezzo. Oggi Armstrong, se fosse vivo, sarebbe sicuramente, per costoro, un pezzo da museo. Proprio Armstrong invece, nel corso degli anni Venti, col suo esempio di audace indirizzo solistico inserito nel contesto di elaborazioni collettive, ha privilegiato la libera estrinsecazione dell'individuo autore-esecutore e ha contribuito in modo decisivo a definire il jazz come una musica creativa e improvvisata. Questo lato fondamentale della fisionomia del jazz, a ben guardare uno dei pochi rimasto costante, è quello che permette a qualsiasi musicista di dare, se vuole e sa darlo, un proprio contributo personale anche qualora il suo lavoro si svolga nell'ambito di una scuola o di uno stile già collaudati, o se riproponga gli stessi brani o reinterpreti se stesso. E non sta scritto da nessuna parte che il « revivalista» che reillustra oggi le opere armstronghiane crei di meno o, se si preferisce, imiti il suo modello di più di un moderno jazzista europeo che si pone l'autonomia e l'originalità come fine. Ciò dipende assai più dalle disposizioni creative dell'uno e dell'altro che dalla scelta di campo effettuata. In questo clima si comprendono le due tendenze, definibili rispettivamente, con terminologia molto grossolana, estensiva e restrittiva che si sono delineate nella valutazione dell'apporto di Armstrong. Con la prima si propende a guardare con occhio benevolo anche le opere della vecchiaia, quando l'ex scugnizzo di New Orleans non suonava quasi più ma si limitava a cantare con quella sua straordinaria voce velata e inconfondibile, e cantava per lo più motivi banali e riusciva raramente a nobilitarli mentre la sua orchestra diventava poco più che un numero da avanspettacolo, finché il piano inclinato lo ha portato a partecipare al festival canoro di Sanremo del 1968. In tal modo si può affermare, citando con un minimo di attenzione, che un'interpretazione da hit parade come We have all the time in the world, una delle sue ultime, rientra fra le cose da salvare. Il ritmo di shake, il fondale degli archi, la malcelata destinazione alle balere passano in seconda linea rispetto alla magia della voce capace di conferire all'assieme un tono sottilmente crepuscolare, a un tempo nostalgico e presago, che induce l'ascoltatore alla riflessione. E' una posizione osteggiata dai jazzofili più giovani che sono persone fin troppo serie, ma ampiamente documentabile. La concezione restrittiva limita invece l'autentico contributo di Armstrong al decennio 1923-1933, sostenendo che solamente in questo periodo egli è stato l'uomo d'avanguardia in ogni senso che ha dato un impulso al superamento, da parte della musica afroamericana, dello stadio folclorico e geograficamente delimitato e quindi al decollo verso la conquista di una dignità internazionale. Dopo, malgrado la presenza di altre opere pregevoli, sono cominciati pure per lui i cedimenti commerciali - favoriti dalla crisi economica, dal new deal roosveltiano e dall'atmostera un po' fatua degli anni Trenta - le rivisitazioni e i ricalchi. Si tratta di una visuale attraente che ha il pregio di porre in risalto, approfittando di un esempio macroscopico, la regola per cui l'artista di jazz dà il meglio di sé negli anni delle giovinezza. Ma le sue semplificazioni sono infondate, troppo comode, e rientrano pari pari nell'ideologia prima criticata. Evidentemente non possono essere liquidate come ricalchi le opere sorte dal reincontro fra Louis Armstrong e Sidney Bechet nel 1940, e neppure la splendida produzione musicale che il concert group guidato dal trombettista elargì a piene mani dal 1947 fin oltre il 1950, malgrado la deleteria presenza dell'impresario Joe Glaser. Restringendo l'ottica a quel modo ci si schiera coi partigiani a ogni costo del« l'ultima» avanguardia, togliendo ai musicisti doppiati nel tempo da altri stili il diritto di continuare a suonare secondo le proprie idee, di verificarle e di approfondirle. Per quanto riguarda il preteso disimpegno di Armstrong nei confronti dei problemi razziali, sociali e politici della sua gente, giova ricordare che il jazz è nato come contromusica, non lo è diventato improvvisamente dieci anni fa; Armstrong lo sapeva e lo ha anche scritto. Ovviamente il pensiero e l'azione dei musicisti di jazz, e quindi il suo, vanno valutati in relazione ai singoli momenti storici. Quando Armstrong canta in tono semiserio Hobo, you can't ride this train raccontando l'eterna storia del vagabondo nero che viene sbattuto giù dal treno perché non ha il biglietto; oppure lamenta che My only sin is my skin (il mio unico peccato è nella mia pelle); oppure approfitta della sua voce e della sua notorietà per commuovere gli ascoltatori con le note di uno spiritual come Nobody knows de trouble I've seen: in tutti questi casi egli fa ciò che è possibile fare in un contesto collaborativo come quello degli anni Trenta. Che poi il logorio dell'età e della carriera, il denaro, il dover recitare una parte abbiano un po' annacquato i suoi atteggiamenti, è un altro discorso. Ma forse è abbastanza realistico ammettere che il Black Panther Party non poteva che rimanere al di fuori della portata sua come di Duke Ellington o di Langston Hughes, ossia di artisti la cui maturità era coincisa con margini di consapevolezza e di manovra ben più limitati.

 

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