La poesia araba pagana di Francesco Gabrieli

 

 
    

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La poesia araba pagana di Francesco Gabrieli

  

La poesia araba pagana di Francesco Gabrieli

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«La poesia araba pagana» di Francesco Gabrieli

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L'Arabia ha dato al mondo della religiosità umana l'Islàm. Ma fuor del campo religioso un altro dono essa ha fatto, alla letteratura mondiale, ed è quello della sua antica poesia. Mentre l'Islàm rappresenta l'esperienza del monoteismo intensamente vissuta dal Profeta sotto forti e chiari influssi giudaici e cristiani, la poesia è un fiore assolutamente autonomo della terra araba, sbocciato nel deserto al di fuori di ogni percepibile influenza straniera, formatosi in tempi e modi che quasi intermaente ci sfuggono, e che ci si presenta in tutto il suo rigoglio nel secolo anteriore alla nascita di Maometto, quale la più caratteristica espressione dell'Arabia pagana. Maometto, poco dotato e poco favorevole alla poesia, non poté sradicarla dalla società in cui visse, dovette anzi chiederle aiuto (accanto alla diretta rivelazione coranica) nel respingere gli attacchi dei pagani e difendere e affermare l'opera sua. Anche dopo la vittoria dell'Islàm e la fine del paganesimo arabo, la poesia che in esso era nata gli sopravvisse, accompagnò lo sviluppo della nuova fede e società musulmana, e ne costituì il più brillante ornamento letterario. Ancor oggi, accanto agli influssi fortissimi delle letterature occidentali, delle loro forme e spiriti, i modelli dell'antica poesia nazionale esercitano una non estinta influenza nel mondo arabo contemporaneo, e ne ispirano una parte della produzione poetica.

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Qui vogliamo soprattutto ricordare la più antica, originale fase di questa poesia. Essa come abbiamo detto ci appare già formata e stilizzata in una forma e una tematica rigorosa nell'età che i Musulmani dissero della Giahiliyya («ignoranza», o piuttosto «barbarie»), il paganesimo dell'Arabia preislamica. Al sesto e fino alla seconda metà del quinto secolo d.C. risalgono questi antichissimi carmi, conservatisi a lungo in una tradizione prevalentemente orale (ciò che ha dato appiglio a dubbi, infondati o assai esagerati, sulla sua autenticità), poi messa per iscritto dai filologi del II e III secolo dell'ègira (VIII-IX d.C.). Nella forma, si tratta di una poesia quantitativa, fondata come quella greco-latina sulla lunghezza delle sillabe e sullo schema di alcuni metri, ma a differenza della poesia classica, anche sulla rima finale, che contraddistingue ogni simbolo carme e che secondo una moderna teoria proprio gli Arabi avrebbero nel Medioevo trasmesso alla nostra poesia romanza. Tipica unità di quest'antica poesia è la qasida, un carme che da una quindicina di versi può arrivare sino al centinaio, legato dalla identità di metro e dalla suddetta unica rima finale, in cui combaciano i singoli duplici stichi.

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Il contenuto abbraccia una larga tematica, ove si rispecchia la dura vita beduina: l'amore anzitutto, un motivo divenuto d'obbligo nell'apertura di ogni singolo carme, ove il poeta comincia col piangere l'amata lontana, soffermandosi sui resti dell'accampamento dove ella un tempo abitò, e rievocando i giorni felici della sua vicinanza. Questo motivo profondamente poetico, nato proprio nella nomade vita del deserto, si è poi svuotato di ogni concreta aderenza alla realtà (fuor della vera e propria poesia amorosa, che assunse autonomo sviluppo più tardi), e si è ridotto a semplice preludio di ogni componimento metrico, quale ne sia l'ulteriore sviluppo e contenuto. A tale preludio erotico (nasìb) seguono, nella composita struttura della qasida, altri motivi anch'essi stilizzati, e tenuti insieme tra loro da deboli e convenzionali vincoli: il viaggio che il poeta affronta alla ricerca dell'amata lontana (o anche per distrarsi dalla pena d'amore), con descrizioni spesso minutissime della propria cavalcatura, la fida cammella o il destriero; gli altri animali del deserto, spesso introdotti per via di comparazioni, quali la vacca selvatica, la gazzella, il lupo, il leone; il vanto infine del poeta sul proprio valore e le proprie gesta di generoso ospite e sovventore dei viandanti affamati, di saggio capo della tribù, di intrepido combattente in guerra... Lo scopo pratico che è al fondo di tali poesie compare quasi di sbieco alla fine di tutti i precedenti punti obbligati, e serba spesso l'oscurità di concrete situazioni a noi sfuggenti: rimbrotti e rinfacci di contese fra tribù, elogio di loro capi, sollecitazioni di doni, polemiche personali.

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Gli Arabi dissero giustamente la loro antica poesia «archivio» dei loro fasti nazionali, o piuttosto tribali, secondo la primitiva struttura della società beduina; e anche vista sotto quest'angolo, questa arte del deserto ha un valore documentario, storico-etnologico notevolissimo. Non si può tentare di ricostruire la storia materiale e spiriturale dell'antica Arabia senza ricorrere a questa primaria fonte. Ma anche dal punto di vista artistico, e anche alla luce dell'estetica occidentale (che, è superfluo rilevarlo, non sempre coincide con i principi e i canoni di quella araba), l'importanza e il pregio dell'antica poesia araba sono considerevoli. Sotto la stilizzazione assai pronunciata, la convenzionalità e povertà dei motivi d'ispirazione, le difficoltà lessicali ed esegetiche talora assai ardue, e che lasciavano già incerti gli antichi filosofi illustratori, traspaiono vigorose personalità di poeti, al cui rilievo umano e alla cui arte l'Oriente e l'Occidente del pari sono stati sensibili.

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Tali ad esempio gli autori delle celebri Muallaqàt, un gruppo di sette qaside trascelte già dagli antichi con un valore esemplare dell'antica poesia pagana: Imru l-Quais, il principe poeta errante (primo dei poeti anche sulla via dell'inferno, secondo un ostile detto attribuito al Profeta), la cui muàllaqa è famosa per la descrizione del destriero, e poi di un uragano nel deserto; Antara, l'Achille arabo, che riscatta l'impura origine razziale con il supremo valore in battaglia; Tàrafa, con la sua minuta descrizione della cammella, ma anche con virili versi di gioia della vita, e di rassegnata tristezza di fronte alla morte; Labìd, il poeta delle cacce avventurose fra le dune, col suo toro selvatico che passa la notte all'addiaccio sotto la pioggia, e al mattino è attaccato dai cacciatori; Zuhair, il savio poeta della riconciliazione e della pace, nei cui versi la gnomica beduina si dispiega in tutta la sua primitiva efficacia; Amr ibn Kulthùm, la cui qasida è il tipico esempio del fakhr o vanto, individuale e di gruppo, tutta dedicata alla esaltazione della sua tribù dei Taghlib, contro una tribù rivale. A questo gruppetto di poeti «canonici», di ognuno dei quali oltre alla muàllaqa si serbano vari altri carmi di pari e magari ancor più alto valore poetico, si accompagna tutta una schiera di «minori», tra i quali i critici musulmani stessi, e i moderni, riconoscono autentiche tempre di valenti artisti del verso.

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Tale fu ad esempio Shànfara, o chiunque sotto il suo nome abbia composto il mirabile carme della Lamiyyat al-Arab a lui attribuito, insuperata rapsodia sulla vita errante del bandito beduino, nemico agli uomini, e fraternizzante con le fiere del deserto; tale Taàbbata Sharran, che la tradizione dice socio di shànfara nell'avventura e nella rapina, e come lui fermante nel superbo verso imitato da Goethe la sua esistenza di disperato e reietto. Tale Abìd ibn al-Abras, il nemico di Imru I-Qais, che gli rispose per le rime nella polemica per l'uccisione del padre Hugr, e creò superbi quadri plastici nella animalistica d'Arabia, come la celebre lotta dell'aquila contro la volpe.

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E per limitarci a pochi altri nomi esemplari, Adi ibn Zaid, il poeta arabo cristiano che cantò il vino e le leggende bibliche della creazione e del diluvio, assieme a qualche germe di epica rimasto poi incongeniale agli Arabi; o al-Asha e an-Nàbigha, i poeti cortigiani, che esaltarono i principi Ghassànidi, vassalli di Bisanzio, e altri potenti della Penisola, e si compiacquero del vino, dell'amore, delle bbelle vesti e delle cantatrici dai liuti armoniosi, portando un iniziale addolcimento di civiltà sedentaria nel rude canto della musa beduina. Il Parnaso di questa antica poesia è popolatissimo, perché si può ben dire che in quel tempo ogni arabo era poeta, e la poesia era sentita come un alto valore di espressione sprituale, oltre ad assolvere alla nota funzione magica, caratteristica dei poemi primitivi, e a quella politica e pratica, che anticipa la funzione moderna del giornalismo. Da quest'aurora pagana essa visse poi la sua splendida giornata per tutta la civiltà dell'Islàm, e non è ancor morta tuttora.

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