«Testimonianza sulla Resistenza» di Ettore Serafino


Diciamo subito che il termine «testimonianza» è variamente interpretabile, e, nella sua accezione più autentica, impegnativo. Si può essere stati testimoni (anche in veste di protagonisti) di certi fatti, e quindi li si può riferire (però, quanto autentica, e non influenzata dal tempo e dai mutamenti della persona, può essere la narrazione di fatti trascorsi decenni addietro?); è, questo, il significato comune, e ovviamente più limitato, che si suol dare al termine. Si può invece essere stati testimoni, e protagonisti assieme di quel tempo, ed essere incapaci di renderne testimonianza; intendendosi qui per testimonianza le capacità di tradurre in modo e stile di vita, in coerenza di pensiero a di azione, l'esperienza acquisita vivendo la relativamente breve ma quanto mai costruttiva vicenda della Resistenza. La vera, la sola nobile testimonianza, se si è capaci di renderla, è questa. Torna quindi conto di tentar di ricordare, a se stessi prima che agli altri, e rivivere nei limiti purtroppo angusti in cui lo si può fare nell'ora presente, lo spirito di quel tempo, più che non gli episodi attraverso i quali trascorse, con tutti i dolori, le tragedie, i lutti, gli eroismi, le viltà, i sacrifici ed i compromessi che lo caratterizzarono. Lunghi anni di guerra, combattuta e sofferta fuori dei nostri confini, avevan me, come ogni altro giovane, precocemente maturato. Trovai in montagna altri usciti dalle stesse esperienze, altri più anziani, molti più giovani, per la prima volta a contatto con la realtà della guerra, tanto da farmeli sentire, nonostante i pochi anni di differenza, dei ragazzi. Trovai studenti, operai, contadini, ufficiali e soldati del vecchio esercito. La prima, positiva esperienza, fu quella di constatare come una così disparata compagnia trovasse facile e pronta amalgama, senza reciproche soggezioni o diffidenze; e non contasse più tanto il grado militare o la posizione sociale di prima, o la cultura, per creare la pure indispensabile differenziazione di funzioni e di responsabilità, quanto piuttosto il prestigio acquistato giorno per giorno, e avvertito e riconisciuto come degno riconoscimento. La «Val Chisone», nonostante l'equivoco di cui, e non in buona fede, ci si è, da certa parte politica, da certa stampa e da certi studiosi di storia, compiaciuti di circondare le formazioni «autonome» (basti pensare alla definizione «partigiani bianchi», mai esistita allora, e che quindi è un falso storico bell'è buono, deliberatamente voluto), sotto questo aspetto era quindi retta da principi democratici, non certo diversamente da quel che poteva accadere nelle formazioni sorelle, Garibaldine o G.L. che fossero. Anzi: mentre la unilaterale preparazione politica voluta dai responsabili di queste formazioni imponeva l'invio dall'esterno (dal partito) di commissari politici che derivavano la loro accettata autorità (oltre che, beninteso, dalla loro preparazione) non dalla base ma da una designazione dall'alto, ciò non si potè verificare nelle formazioni autonome, prive di commissari politici. Quanto alla « Val Chisone», ciò non costituì certo rifiuto preconcetto ad occuparsi della natura politica oltreché militare della lotta che si combatteva: ricordo che si disse più volte che se si volevano inviare commissari politici, se ne mandassero cinque, uno per ogni partito del C.L.N., onde assicurare la possibilità di una conoscenza la più completa possibile di quelle regole democratiche cui, a guerra finita, ci si sarebbe dovuti attenere, e delle quali la gioventù uscita dal fascismo, non certo per sua colpa, era digiuna. Ed i partigiani della «Val Chisone» posson dire che venivan loro distribuiti tutti i giornali clandestini che si ricevevano, da «L'Opinione» (liberale) a «Il Pioniere» (G.L.), a «La Voce di Spartaco» (comunista) e così via. Né parve stranoad alcuni di noi che alla Liberazione la «Val Chisone», scendesse in città articolata in varie bande, tutte col fazzoletto verde (come i G.L.), talune con le stellette militari al bavero, altre con bandiere rosse e falce e martello. Sia pur sotto un unico comun denominatore che era quello di volere, oltre alla lotta in atto contro il nazifascismo, una Italia nuova, che si inserisse a giusto titolo nel novero delle nazioni democratiche, questa varietà di «intuizioni» (più che di orientamenti, forse non ancora possibili) politiche era peraltro l'inevitabile conseguenza e riflesso della assoluta libertà di opinione che era garantita ai partigiani della «Val Chisone», e della stessa composizione sociale - di cui già s'è detto - della formazione. Più rifletto su queste realtà di allora, e più mi par di riconoscere nella lotta partigiana (il che vale per tutte le formazioni) il suo vero autentico valore; quello che doveva (o avrebbe dovuto) determinare le scelte veramente democratiche a liberazione avvenuta e negli anni successivi, al di là del peso, contingente e - diciamolo pure - forse non risolutivo, delle operazioni militari; operazioni militari che peraltro in Val Chisone ebbero quella portata, quell'importanza ormai dagli storici riconosciute, contribuendo ad impegnare notevoli forze nemiche e, per lo meno indirettamente favorendo un di certo più celere conseguimento della vittoria finale. Sarebbe però ingiusto riservare questi meriti ai soli partigiani combattenti. E' doveroso invece ricordare che quanto si fece fu reso possibile dall'aiuto, essenziale e decisivo, della popolazione, chiamata spesso a rischiare la vita e i propri beni senza la possibilità di sottrarsi alle reazioni e repressioni nemiche. Anche questo aspetto della lotta partigiana si presenta con le stesse connotazioni di quella condotta dalle formazioni armate, se è vero, come vero è, che il sostegno, il soccorso, la collaborazione ci vennero dati da cittadini di ogni ceto; se a rischiare, e ad osare spesso l'inosabile, furono semplici montanari, famiglie operaie, professionisti, intellettuali, borghesi ed aristocratici. La elencazione, che pur sarebbe doverosa, rischierebbe d'essere incompleta, e così me ne astengo: chi ha il ricordo (o, non avendo vissuto quel tempo), la conoscenza di un po' di storia obiettiva e capacità di onesta critica, può mentalmente controllare l'esattezza di quanto affermo rievocando per suo conto fatti e nomi. Vorrei ancora aggiungere che la Resistenza trasse alimento, vigore, forza di sopravvivenza nei momenti più duri e sconfortanti, dalla altrettanto nobile, se pur, per la lontananza ed il silenzio di cui era avvolta, invisibile, resistenza di quanti, anche qui appartenenti ad ogni ceto sociale, soffrirono la macerante prigionia nei campi di concentramento militari e politici dei nazisti; moltissimi pagando col sacrificio della loro vita il dignitoso eroico rifiuto della collaborazione e dell'asservimento. Più di trent'anni sono trascorsi da quella primavera del'45 della quale Calamandrei, parlandone qualche tempo dopo, disse che, nonostante le distruzioni, i lutti e le rovine, «qualcosa di nuovo era nell'aria». La mia resistenza, quella di tutti, dovrebbe consistere nello sforzo costante, per nulla facile, riconosciamolo, di mantenere nell'aria del nostro paese, come nelle nostre coscienze e nei nostri cuori, l'inebriante profumo primaverile di quella «novità». In che misura ciò sia avvenuto, e giorno dopo giorno avvenga, contro la tendenza a dimenticare, o a travisare (sintomi tutti di vecchiezza e non di giovanile novità) ognuno di noi può chiederselo: un onesto esame di coscienza è l'esperienza più pulita e purificante che si possa fare oggi, ed è l'unico modo per continuare ad essere, pur con tutte le umane debolezze di cui siamo carichi, dei «testimoni» della Resistenza.

 

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