«Nuovo jazz e Afroamerica» di Daniele Ionio


I rapporti fra il jazz e il pubblico - che sono poi quei rapporti che giocano un ruolo determinante in ogni espressione culturale, costituendo, in fondo, la cultura stessa - sono stati sempre, in tutto l'arco di settant'anni che copre la storia di questa musica, rapporti estremamente ambigui. L'ambiguità consiste nel fatto preciso che il jazz è nato e si è sviluppato come musica creata dai Negro-americani, mentre buona parte del pubblico lo ha trovato presso gli Americani bianchi, così come una buona dose degli strumenti e del materiale impiegato apparteneva alla cultura occidentale (basti pensare alle canzoni che hanno fornito il materiale di base, il tema su cui i musicisti di jazz dovevano improvvisare). Tale ambiguità di rapporti, inclusa la paradossale mancanza, da parte del jazz, di un suo vero pubblico, è giunta oggi ad un punto cruciale dal quale è ormai impossibile retrocedere. Il nuovo jazz negro-americano non vuole neppure più, come testimoniano parecchi musicisti, chiamarsi jazz, bensì musica afro-americana (il termine «negro» viene oggi pure rifiutato a favore di «afro-americano»). Si tratta di una affermazione senza precedenti della autonoma cultura afro-americana, che respinge, contrapponendosi ad essa, la cultura occidentale; e la parola «jazz» suona ormai, all'orecchio di tanti musicisti della nuova generazione, come una definizione spregiativa coniata dai bianchi e, soprattutto, come un termine che indica la musica dei negri così come è stata interpretata (o deformata) dai bianchi che ne hanno fatto sia commercio sia consumo. I rapporti fra questo nuovo jazz - che ha cominciato a delinearsi, semiclandestinamente, attorno al 1964 e che per un certo tempo, avendo compiuto il proprio debutto ufficiale a New York nell'ottobre di quell'anno, si è fatto chiamare «rivoluzione di ottobre» - e movimenti politici rivoluzionari come il Black Power sono evidenti: il negro non si vede più attraverso l'immagine che di lui si era foggiata il bianco ed avanza ormai la propria autoaffermazione, al di là della protesta, al di là dell'integrazione; ed è proprio il jazz l'arma e l'espressione culturale più efficiente per il negro, perché esso rappresenta, ormai, l'unica tradizione, in seno al mondo americano, che egli può riconoscere come propria, in cui può identificarsi, mentre questa sua esperienza egli va rafforzandola ed arricchendola con quella di altre culture non bianche, vale a dire del Terzo Mondo, dall'Africa all'Oriente (già all'inizio degli anni Sessanta una composizione di John Coltrane - che aveva precedentemente perlustrato e assimilato il filone medio-orientale - si intitolava «India»). La musica orientale viene ad offrire al jazz la propria dimensione spaziale, che si contrappone alla dialettica razionalistica della successione temporale caratteristica della musica occidentale, perlomeno della sua tradizione e delle sue espressioni più diffuse con le quall il jazz ha dovuto, nella propria evoluzione, fare i conti. La musica indiana è improvvisazione basata praticamente su un unico accordo: e nella stessa direzione si stava portando, appunto, il jazz di John Coltrane, che giunge egli pure a basare parecchie lunghissime improvvisazioni, al sax tenore e al sax soprano, su un unico accordo. L'atteggiamento lucidamente e spietatamente razionalistico della società industriale occidentale viene, infatti, respinto dai Negro-americani perché in esso scorgono tutto ciò che ha reso possibile il loro sfruttamento e il rifiuto di quella furiosa rivendicazione degli elementi vitalistici che i negri hanno per primi contrapposto all'attuale società e che poi è stata portata alla ribalta anche dai movimenti gìovanili sia nell'America bianca sia in Europa. Il nuovo jazz è carico di emozionalità: è musica che si costruisce, si fa «qui e adesso». Ornette Coleman, prima, Cecil Taylor e poi Albert Ayler, Pharaoh Sanders, Giuseppi Logan e gli altri esponenti del nuovo jazz hanno spezzato le barriere armoniche e strutturali che sono state dominanti in questa musica fin dopo il bop di Charlie Parker. Ponendo invece l'accento sui valori timbrici, liberando la nota dai legami meccanistici con le note che la precedono e la seguono, in una specie di polifonia cui partecipa anche l'elemento ritmico, emancipato dal rigore del puro e semplice accompagnamento, il «free jazz» rivaluta così anche il carattere collettivo dell'improvvisazione, non più basata sulla successione, bensì sulla simultaneità: «Free Jazz» del doppio quartetto di Ornette Coleman o «Ascension» del complesso radunato da John Coltrane debbono venire, infatti, ascoltati nella loro forza d'assieme, nel risultato di una somma di contributi. Esperienze totali come queste alterano inesorabilmente anche il contatto tradizionale fra musicisti e ascoltatori. L'atmosfera del night-club, ad esempio, contraddice una simile proposta musicale. Tuttavia, la difficoltà attuale di un rapporto fra musicisti e pubblico è soprattutto dovuta alla violenza offensiva che il nuovo linguaggio jazzistico riversa su quella che una volta era la maggioranza del proprio pubblico, il quale, di conseguenza, non riesce ad identificarsi, con il proprio bagaglio culturale tradizionale, nel nuovo jazz e si sente, addirittura, respinto dalle sonorità beffarde del sax tenore di Albert Ayler (che ha intitolato una sua composizione «Ghosts», cioè «Fantasmi», termine con il quale nel linguaggio negro si indicano i bianchi), non sapendo come reagire di fronte alla ambigua citazione della «Marsigliese» proposta da questo solista; o dall'irosità aggressiva di un altro sax tenore, quello di Archie Shepp; o dalle nuove strutture della «musica solare» dell'«Arkestra», l'orchestra del pianista-compositore Sun Ra (Sun significa, in inglese, sole e così, in egiziano, Ra). Non a caso, però, il - free jazz - ha offerto la possibilità a musicisti anche europei (come i tedeschi Berger e Hampel) di trovare una propria strada nel jazz ad un livello diverso dalla mera assimilazione (o da un distaccato ripensamento nella forma della scrittura orchestrale) che ha in passato caratterizzato gran parte del jazz extra americano (Berger, ad esempio, ha addirittura collaborato strettamente con Don Cherry, mentre la nuova musica «pop» britannica (Rolling Stones, Cream) e americana (Mothers of invention, Doors ecc.) ha diversi punti di contatto con il jazz (le due musiche sono state spesso affiancate nei festival, come a Monterey e, in misura minore, a Newport, mentre le riviste di jazz hanno aperto le proprie pagine anche alla musica «pop»), anche se la musica «pop», dal «beat» in su, sviluppa principalmente l'elemento suono, ad esso subordinando quello ritmico, mentre nel jazz il suono ha una matrice ritmica. L'elemento comune è un atteggiamento di opposizione alla cultura ufficiale e tradizionale (e in esso gioca in buona parte la su-accennata carica vitalistica). Il linguaggio jazzistico ha superato, d'altronde, gran parte del valore di gergo che gli derivava dalla condizione di musica segregata ma costretta a fare i conti con l'ambiente cui si rivolgeva, e che teneva questa musica in stato di segregazione: il gergo era, soprattutto, un atteggiamento difensivo, quale traspare oggi, alla luce della successiva evoluzione, nello stesso bop, nato durante la guerra come sostanziale rivendicazione culturale negra; e il gergo chiudeva le porte del jazz a musicisti di altra estrazione culturale-ambientale. Oggi, invece, questa musica ha la violenza di un'affermazione senza sotterfugi. E la sua stessa carica emozionale, in un musicista quale il percussionista Milford Graves, il maggior innovatore della batteria di questa nuova generazione musicale, accenna persino a perdere la violenza derisoria, vincolata ad un'operazione polemica, di rottura, per orientarsi verso una musica che si va già inventando da una nuova posizione raggiunta, da un nuovo atteggiamento, da una cultura che comincia ad esistere senza più il bisogno, almeno in parte, di violentare gli strumenti impiegati, come è avvenuto nel jazz immediatamente precedente; ii jazz, ad esempio, di Eric Dolphy e quello di Charles Mingus, la cui musica si fondava sulla tensione creata dal rapporto odioamore (tensione razziale), esemplificata in «The Black Saint and the Sinner Lady», equivalente di «Un altro mondo» del romanziere negro James Baldwin, tensione che comincia, parzialmente, a venir superata nel rafforzamento dell'autonomia culturale negra.

 

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