Lingua e potere di Mario Soldati

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Lingua e potere di Mario Soldati














Lingua e potere di Mario Soldati

«Lingua e potere» di Mario Soldati


Leggiamo, all'Insegna del Pesce d'Oro di Giovanni Scheiwiller, nella solita squisita veste tipografica ma con l'insolita copertina di un bellissimo, luminoso e non lucido verde prato, i Versi e Poesie di Emilio Sarpi: cioè tutte, o quasi tutte, le poesie inedite e postume di Giacomo Noventa, che non trovarono luogo nelle due precedenti edizioni di Versi e Poesie, o perché non ancora composte, o perché non ancora, dall'autore, giudicate degne di pubblicazione. Un paio (Ti amavo, Attis; e quella tedesca: Il re e il Poeta) furono stampate o incluse in esemplari fuori commercio. Molte delle altre, non tutte, erano note agli amici e alla moglie, perché il poeta, secondo la sua abitudine, le aveva recitate, e continuava a recitarle, man mano che le componeva, o ad anni di distanza dopo la composizione. Dobbiamo dire subito che almeno trenta di queste quarantun poesie sono all'altezza della maggiore e migliore parte delle centododici raccolte nell'edizione principale del '60. In un certo senso, nella intensità e nell'accortezza, sono, se possibile, superiori: penso soprattutto alle cinque Ultime Poesie, che sono il presentimento e la preparazione della morte. Ci viene incontro, e ci copre, mentre leggiamo questi versi, l'ombra del Poeta, che abbiamo avuto la personale fortuna di conoscere e di amare durante la sua vita non lunga e, in ogni modo, per noi così bruscamente abbreviata. Ci sembra che gli anni, dal triste giorno della sua morte (4 luglio 1960), continuando a passare, via via facciano quell'ombra più vasta e più densa. E' come se il tono caldo e profondo della sua voce, anche per chi non l'ha udita materialmente, il tono della sua voce di poeta risuonasse, man mano che il tempo passa, più limpido: come se soltanto adesso ne avvertissimo tutta la singolare modernità e importanza, e ne misurassimo l'altissima vibrazione: mentre altri toni e altre voci intorno si confondono a poco a poco e sempre più, in un fatale diminuendo, fino al silenzio assoluto. E' vero, le antologie includono ormai i suoi versi. Ho visto, riprodotta in un volume per i licei, la splendida poesia intitolata «Il giudizio universale», e cioè:
Cô no' ghe sarà più stele nel ciel, E anca el sol sparirà Ne la luse de Dio, Quando i morti dal mar tornarà...
Ma siamo appena agli inizi: Noventa, da oggi e nel futuro, sarà letto e studiato sempre di più: come noi proprio perché lo abbiamo conosciuto e amato in vita, non potremmo mai fare. Ci si accorgerà, allora, dell'altezza della sua ispirazione e della tormentosa coscienza di un problema, che è tutt'uno con questa ispirazione e che dominò la sua vita: il problema linguistico, che potrebbe, da solo, costituire una sindrome, cioè un complesso dei sintomi rivelanti i morbi e i guai dell'odierna società italiana. Ad un nostro ipotetico poeta lirico, il quale volesse, oggi, cantare, non più di cose piccole e serene, dato che ne è già stato cantato in modo insuperabile e definitivo, ma di cose grandi e gravi, si presenterebbe la difficoltà di usare un linguaggio consunto, avvilito, privo di ogni freschezza, a causa di troppe lunghe e consacrate prostituzioni. In altri termini, la lingua italiana è stata, per secoli e secoli, l'espressione ideale, artificiale, inventata, di una società che, come organismo pratico ed economico, era inesistente: quasi una lingua morta, un latino élites che socialmente appartenevano a diversi organismi. Gli ultimi grandi lampi di questa lingua si ebbero nel soffio vitale che Bonaparte portò in Italia con l'ideologia della Rivoluzione: Foscolo, Manzoni, Leopardi, e Botta, Cattaneo, De Sanctis. Ma intanto, premevano l'indipendenza e l'unità: e queste necessità politiche contribuirono a perpetuare l'equivoco, mentre i lampi gradatamente impallidivano e si rarefacevano, o peggio ancora, erano falsi lampi, bengala di retorica. Non dico i nomi, perché ognuno di noi li ha sulle labbra, e, purtroppo, anche nel cuore. Per questo, oggi, un poeta italiano trova difficoltà ad esprimersi nella sua vecchia lingua, esattamente allo stesso modo che il popolo italiano, unificato da un secolo e avviato almeno da qualche lustro verso un autentico livellamento sociale, trova difficoltà a governarsi mediante persone e metodi, che lo rappresentino sul serio: che esprimano, cioè, il rivolgimento in corso, invece di rimanere legati, legami finora indissolubili, ad antichi privilegi e gruppi privilegiati. Con una sola frase, che ci lusinghiamo Noventa avrebbe approvato: in Italia la lingua, come il potere, sembra ormai corrotta. La soluzione di Noventa è la stessa del Porta e del Belli:
Nei momenti che 'l cuor me se rompe Mi no' canto che in venessian De una lengua le «splendide pompe» Lasso a chi fa mestier d'italian.
Mi pare, dunque, ora di respingere con estrema violenza la sciocca, quanto inarticolata riserva, che giustamente faceva imbestialire Noventa. Voglio dire la riserva di chi diceva: «Noventa, sì, sì, è bravo... ma è in dialetto». La verità è questa: che Noventa è bravo, e molto più che bravo, proprio perché in dialetto. Non che il dialetto basti alla grandezza, naturalmente. Ci sono dialetti forti come lingue. E lingue fiacche come dialetti. E c'è dialetto e dialetto. Il milanese del Porta, per esempio, è più italiano dell'italiano del Monti: più moderno, sebbene venga ottant'anni prima, del milanese di Bertolazzi. Si aggiunga un'altra considerazione. Secoli di retorica, oltre che di poesia, e la catastrofica ed ahimé! ancora troppo recente inflazione dannunziana, hanno sottoposto il verso italiano, e le parole nel verso, a un'usura che la grande maggioranza dei nostri poeti in lingua ha potuto combattere in un modo solo: con quella severa ricercatezza, con quella studiata complicazione di nessi, suoni e figure, con quella carica sovente oscura e sovente arbitraria di significati, che è detta ermetismo. Bene, Noventa non è, certo, un poeta facile. Tuttavia, nelle sue grandi linee, il veneziano di Noventa è comprensibilissimo a tutti: mentre confesso di non riuscire a capire quasi nessuno dei poeti contemporanei: per colpa mia, per colpa mia, non lo nego: mais enfin! sono laureato, e in belle lettere. Che l'ispirazione di Noventa coincida col problema linguistico, un'altra prova è offerta dalla poesia in tedesco Es war einmal ein Dichter, inclusa nella raccolta verde prato di Scheiwiller, con traduzione a fronte di Franco Fortini. Quando, infatti, dicevo usura, consunzione di vocaboli, non vorrei essere stato frainteso. Non alludevo a una condizione oggettiva del lessico. Se così fosse, con qualche lieve ritocco. A Silvia e Dolce chiara è la notte e senza vento, potrebbero essere scritte oggi. Ma non sono scritte oggi. Perché l'usura è in noi. In noi è la corruzione. Allo stesso modo, per riprendere il paragone politico, che gran parte delle leggi oggi vigenti sarebbero compatibili con un totale rinnovamento del costume: ma se il costume non cambia, poco o nulla varrà cambiare molte leggi: se il potere effettivo non passerà ad altre mani, poco o nulla varrà dire e fingere che passi o, peggio, sia già passato. Inversamente, omnia munda mundis. E per un poeta, una lingua straniera può essere sempre fresca, arcaica, validissima. Noventa, così, ha scritto una delle sue più belle poesie proprio in tedesco. E la poesia tedesca contemporanea conta un grande poeta che i tedeschi ancora non conoscono, e che un giorno onoreranno solennemente, sebbene sia poeta, nella loro lingua, di un'unica poesia.
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